C’è chi al Giffoni ci arriva con un film fantasy, chi con una commedia teen, chi con i supereroi. E poi c’è chi arriva con una storia vera. Ma non una storia qualsiasi. Una che ha scosso l'Italia intera quarant'anni fa e che continua ad essere il caso di cronaca più discusso in tutta la nazione. Stiamo parlando di "42", il documentario corale e intimo sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. Non un’inchiesta. Non un cold case. In pratica, non "Vatican Girl". Ma un racconto d’amore. Una ferita aperta che brucia ancora, 42 anni dopo quel maledetto 22 giugno 1983. Sul grande schermo del Giffoni Film Festival, dove ogni anno la generazione Z si incontra per sognare, piangere e incazzarsi, è andata in scena una memoria che non si spegne. “42”, realizzato dal fratello Pietro Orlandi insieme alle nipoti Elettra (regista) e Rebecca (autrice della struggente canzone finale Mantello di Quercia), con la giornalista Alessandra De Vita, è una carezza e uno schiaffo. È famiglia che racconta famiglia. È dolore che non cerca vendetta, ma giustizia. “Non è un documentario d’inchiesta, è un racconto del dolore e della speranza di una famiglia come tante” - spiega Pietro Orlandi - “Ce ne sono migliaia che vivono questa condizione, e spesso le indagini si chiudono dopo una settimana”. Il pubblico di giovanissimi ha risposto con un silenzio carico, con occhi lucidi, con applausi che non volevano finire. Nei loro sguardi c’era lei, Emanuela. Quindici anni, la musica nel cuore, scomparsa nel nulla mentre tornava a casa. E ancora, in qualche modo, viva nella coscienza collettiva.

Ma “42” non è solo un film. Si presenta come il risultato di tanti anni di ricerca, disperazione, speranza e ricordi della famiglia. È una testimonianza che, tra le pieghe di un’Italia che ancora fatica a fare i conti con se stessa, Pietro Orlandi vuole lasciare al mondo: “Tre inchieste aperte oggi su Emanuela - parlamentare, vaticana e giudiziaria - sono un segnale. La verità non può restare occultata per sempre". Una fiducia che si scontra con l’amarezza per le istituzioni che, secondo Pietro, hanno abbandonato la sua famiglia: “Il Vaticano era casa nostra, i Papi ci tenevano per mano. Poi ci hanno voltato le spalle. E lo Stato non è stato diverso". Parole pesanti, sì. Ma dette con l’onestà di chi ha già perso troppo per continuare a fingere. Con il peso di una frase lasciata in eredità dal padre: “Sono stato tradito da chi ho servito”. Ecco perché “42” non è solo un tributo a Emanuela. È una chiamata alle armi, ma con gentilezza. Una chiamata a non chiudere gli occhi. Ai giovani, soprattutto: “Non accettate mai passivamente le ingiustizie, grandi o piccole che siano. La verità e la giustizia devono essere la normalità. Il sacrificio di Emanuela non deve essere vano". E allora quel numero, 42, che sembra solo una cifra secca, diventa simbolo. Di un’assenza lunga quasi mezzo secolo, certo. Ma anche di una resistenza, di una memoria viva, che attraversa le generazioni e si incolla alla pelle dei ragazzi che guardano, ascoltano, sentono. Il potere più grande visto a Giffoni è stato questo: non dimenticare. Emanuela Orlandi, ancora una volta, ha trovato il modo di parlare al futuro.
