Cercare stimoli per scrivere un pezzo non è impresa semplice. Intendiamoci, non è neanche qualcosa di faticoso, almeno non da un punto di vista fisico, nulla che induca stanchezza, sudore, o che possa essere indicato come usurante. Semmai qualcosa di complicato, perché non conseguibile percorrendo un sentiero specifico, indicato con cartelli stradali, già battuto da altri. Il fatto è che, in assenza di notizie, non che io sia particolarmente attratto dalle notizie, non sono un giornalista, cercare nuovi stimoli per scrivere un pezzo significa lasciarsi andare a una visione, dove per visione si intende una lettura del mondo non preesistente, originale, ma che sia al tempo stesso intellegibile anche agli altri, magari non di primo acchito, ma almeno dopo un minimo di ragionamento. Una visione che funga, quindi, da suggestione per chi legge, uno stimolo, per me che devo scriverne, che diventi a sua volta stimolo per voi che state leggendo. Avrete sentito citare tutti, almeno una volta, una frasetta riguardo al mestiere di scrittore che è affibbiata, d’ufficio, a Joseph Conrad. Qualcosa che suona come “dite a mia moglie che anche quando sto guardando dalla finestra sto lavorando”. Immagino, altrettanto, che molti di voi, almeno spero siate tanti, abbiano letto uno dei fulminanti saggi di David Foster Wallace dedicati al mestiere di scrittore, quello nel quale parla della televisione come finestra attraverso la quale guardando il mondo senza correre il rischio di essere a propria volta visti. Ecco, quello di cui stavo parlando, il cercare stimoli per scrivere un nuovo pezzo sta esattamente lì in mezzo, tra me che guardo dalla finestra per cercare di vedere il mondo, lavorando, quindi, e me che guardo la televisione come fosse una finestra dalla quale guardare non visto il mondo, lavorando, idem, sempre e comunque non riuscendo ancora a trovare quello stimolo da cui tutto è partito. Quindi adesso sono qui, davanti al mio pc, a scrivere, lasciando che siano le parole a decidere il cammino, come quando si parte per fare una passeggiata con un amico, senza una meta precisa, e senza neanche la pretesa che il viaggio sia esso stesso la meta, nel mentre sul tablet che ho alla mia sinistra, sorretto da un aggeggio di metallo il cui scopo è appunto quello di regge i tablet, sta andando la quarta puntata di Euphoria, serie ormai vecchia di qualche anno, ma che sto provando, con altrettanta fatica, a recuperare per l’ennesima volta, consapevole che quella forma eccessiva di clamore che accompagna quasi ogni sua scena finirà anche stavolta per venirmi a noia, forse anche un po’ per infastidirmi, come un bambino che continua a ripetere parole volgari perché sa di far ridere gli adulti, oltre che di lasciarli vagamente perplessi, scandalizzati, Mi sono visto tutta The Idol, qualche tempo fa, appena è uscita, Sam Levinson è autore di entrambe, ma lì a spingermi a farlo, più che una trama a sua volta eccessivamente sopra le righe, era la presenza nel cast di The Weeknd, oltre che quella di Lily-Rose Depp, figlia di Johnny e Vanessa Paradis, ma questa mi risulta, se possibile, anche oltre, e non riesco proprio a guardarla con attenzione. Del resto, e qui torniamo al punto di partenza, non guardo mai le serie tv con troppa attenzione, le uso prevalentemente come sottofondo mentre scrivo o mentre faccio ricerche su cosa andare a raccontare, al punto che quasi mai mi accorgo neanche della trama, a volte mi capita di iniziare a vederne una, senza ricordarmi che l’ho già vista tutta, nessuna traccia della visione nella mia memoria. Ho da poco visto Resident alien, per dire, che è anche stata gradevole, ogni tanto l’occhio lì mi ci è caduto davvero, ma non vi ho trovato nulla di buono per infilarlo in un pezzo, come non ci sto trovando nulla ora, in Euphoria, che d’altronde è una serie ormai vecchia di cinque anni.
Se comunque le scene, morbose e piccanti di Zendaya e socie, scorre sul tablet che sta alla sinistra del mio pc, sullo schermo del mio smartphone, qui tra le mie mani, si susseguono i link di una ricerca che, come tutte le ricerche in rete, si basa sul passare di link in link, le famose connessioni di cui tanto si tende a parlare in questa era contemporanea, quella che ci sta traslando dalla liquidità all’evaporazione, frammentarietà fatta e finita. In genere, quando so che non c’è niente di interessante fresco di giornata, e lo so perché passo parte della giornata a tenermi aggiornato un po’ di tutto, dalla cronaca alla politica, passando ovviamente per lo spettacolo e lo sport, butto su Google qualche nome che so potrà darmi soddisfazioni, nomi di artisti che sono talmente originali, multiformi e sfaccettati, oltre che insaziabili a livello di collaborazioni, da offrire sempre un qualche tipo di supporto, un’ancora in mezzo al mare mosso. Quindi eccomi lì a digitare speranzoso il nome di Mike Patton, o quello di John Zorn, o di Les Claypool, per non dire di quello di Saul Williams. Ecco, oggi è Saul Williams a fornirmi soccorso. Pur essendo da sempre uno dei miei feticci, artista che seguo con passione sin dai tempi del suo esordio, ricordo anche di esserlo andato a sentire dal vivo a Arezzo Wave, quando Arezzo Wave era ancora di scena a Arezzo, per l’esattezza a luglio del 2001, ricordo bene il periodo perché di lì a breve sarebbe nata Lucia, la mia prima figlia, un concerto strepitoso che aveva avuto come opening nientemeno che Julie Cruise, voce emblematica di Badalamenti, quindi dei film di David Lynch, Twin Peaks in testa. Concerto cui avevo assistito con il mio amico Corrado, di lì a poco a lasciare l’Italia per andare a fare il professore di Economia a Sidney, in Australia. Lui, poeta campione di slam poetry, cantautore, dove per cantautorato si intende uno strano mix tra rap, urban, che pur urban non si chiamava ai tempi del suo esordio, Amethyst Rock Star, proprio del 2001, quando lo vidi a Arezzo Wave, attore, sei album all’attivo, tra i quali gli interessantissimi The Inevitable Rise and Liberationo for Niggy Tardust!, chiaro il riferimento allo Ziggy Stardust di David Bowie, e l’ultimo, per ora, MartynLoserKing, dove a essere tirato in ballo, nel titolo, è Martin Luther King, e ora anche regista. Sì, perché questo è quel che ho scoperto oggi, con eccessivo e colpevole ritardo, Saul Williams è autore e regista di un film insieme alla scrittrice del Rwanda, Anisia Uzeyman, tra l’altro anche sua moglie. Il film in questione, un musical afrofuturista che tira giustamente in ballo Sun Ra, e come si potrebbe mai ipotizzare qualsiasi progetto che mescoli musica e afrofutirismo senza tirare in ballo Sun Ra?, si intitola Neptune Frost, Elvis Ngabo e Cheryl Isheja i protagonisti. Mentre sto scrivendo queste parole, tanto per non lasciare troppo spazio alla vostra fantasia, nel tablet c’è una ragazza oversize con una maschera da gattino che sta sottomettendo a parole un ciccione col pisello piccolo collegato con lei tramite videochiamata, dopo uno dice che non si appassiona a Euphoria, mentre Saul Williams sì. Confesso questo invece per darvi il grado di disperazione nel quale versavo, di aver anche cercato se Mike Patton, John Zorn, Les Claypool e Saul Williams avessero mai collaborato assieme. Sapevo, so, che Mike Patton e John Zorn hanno collaborato, intendiamoci. Cioè, non dico di sapere tutto quel che John Zorn ha fatto, credo non lo sappia nessuno, neanche lo stesso John Zorn, pur avendo io sul comodino “John Zorn- Musicista Compositore Esploratore” di Maurizio Principato, libro presumo col titolo più brutto della storia dell’editoria, dovrei immagino segnalarlo a Auroro Borealo per il suo podcast Libri Brutti, anche se il libro in questione, seppur un po’ ostico nella forma e tradito da un eccessivo intento enciclopedico, è tutto fuorché brutto, del resto ho letto anche Epic- Genio e follia di Mike Patton, di Giovanni Rossi, che in quanto a bruttezza di un titolo ci va giù duro, anche questo un libro interessante, e come potrebbe mai non essere interessante un libro che racconta le gesta di un tale genio musicale?
Ho letto pure il romanzo di Les Claypool, A sud del capanno, edito da Quarup ormai quindici anni fa, Quarup che ha pubblicato anche Verso Nord di Willy Vlautin di Richmond Fontaine, tanto per rimanere in zona cantanti/musicisti che scrivono romanzi, di Vlautin ho letto tutto, ora lo pubblica Jimenez Edizioni, dopo essere passato anche per Strade Blu di Mondadori. L’unico della covata dei miei nomi di salvataggio, a dirla tutta, è proprio Saul Williams, che dei quattro nomi cui ricorro quando sono proprio all’ultima spiaggia, è proprio il solo a essere “raccontato” principalmente come scrittore, cioè come poeta, seppur lui sia stato protagonista di Slam, il film che raccontava per la prima volta il mondo del poetry slam, il film è del 1998, quindi potremmo anche ridefinire l’idea che per essere uno scrittore tocchi necessariamente pubblicare un libro, del resto lui, Saul Williams, di libri in italiano non ne ha, e al momento leggere un libro di poesia di un autore afroamericano in lingua originale credo mi risulterebbe ostico, pur avendo io in passato letto una quantità incredibile di libri in lingua originale, prevalentemente americani, ai tempi in cui lavoravo proprio per la collana Strade Blu che ha poi pubblicato Willy Vlautin, libro che però non è prima passato dalle mie mani. Toh, se proprio dovessi indicare, non devo ma evidentemente voglio, un libro affine a Saul Williams citerei il bello e esaustivo Guida liquida al poetry slam di Dome Bulfaro. Neptune Frost, quindi, è il film di Saul Williams e di sua moglie Anisia Uzeyman, un musical afrofuturista, leggo dentro una recensione pubblicata dal sito Sentieri Selvaggi, recensione talmente pretenziosa che indurrebbe a spararsi tutta la saga Fast and Furious anche a un appassionato di Akira Kurosawa o Andrej Tarkovskij. Nei fatti, il film è al momento di difficile reperimento, quindi a parte aver appreso che esiste, non c’è stato modo di vedermelo. Questo nonostante io abbia sul comodino, sì, sul comodino ho una ventina di libri, mia moglie non manca mai di lamentarsene, da Deleuze a Greil Marcus, passando per Il libro dei numeri di Joshua Cohen, libro di oltre millesettecento pagine che, confesso, non ho ancora trovato il coraggio di cominciare, a, eccoci al punto di partenza, Space is the place. La vita e la musica di Sun Ra, di John F. Szwed e Catene di Gloria, di Nana Kwame Adjei-Brenyah, libri entrambi, almeno in via teorica, riconducibili a Neptune Frost, il primo per l’ovvio e dichiarato riferimento del musical afrofuturista in questione al genio di Sun Ra, il secondo perché Friday Black, libro d’esordio di Nana Kwame Adjei-Brenyah, come questo, sono considerati due validissimi libri che all’afrofuturismo fanno riferimento, il primo una raccolta di racconti, il secondo un romanzo. E visto che si parla di libri, non sul comodino, in quanto già portati a termine, ma nella libreria, che rispetto a me, al mio pc, al mio tablet e al mio smartphone sta lì, a sinistra, dietro uno dei due divani che ho in sala, sto scrivendo usando il tavolo della sala nonostante oggi sia sabato e lo studio, che durante la settimana è in buona parte usato da mia moglie come ufficio, quando è in smart working, oggi sia libero, abitudine che ormai è diventata routine, nel mentre nel tablet c’è una qualche scena di sesso, quasi sempre raccontata come violenta e assai poco gradevole, tra una copula e l’altra c’è spesso Zendaya che va in bici, di notte, visto che si parla di libri, dicevo, sull’afrofuturismo, in caso siate curiosi, suggerisco L’invasione degli afronauti di Giorgio Raimondi, edito dai tipi di Shake, e Afro-ismo di Aph Ko e Syl Ko, dove afrofuturismo e specismo vanno a braccetto. Beh, a dirla tutta lì, nella libreria, c’è almeno un altro titolo che rientra a tutto diritto tra i libri a tematica afrofuturista, La mia vita funkadelica, biografia di George Clinton, padre visionario dei Funkadelic e dei Parliament. Fuori, adesso, sabato pomeriggio, come quella vecchia canzone di Claudio Baglioni che molti pensano si intitoli “passerotto non andare via”, che poi di quella canzone è l’incipit, credo uno dei più incisivi della storia del pop nonché uno dei più imbarazzanti della storia del pop, sta piovendo, piove da almeno tre settimane, al punto che c’è in giro tutto un florilegio di gente dal qi non elevatissimo che mette in dubbio i cambiamenti climatici e chi, come lo scienziato e divulgatore Mario Tozzi si trova costretto a sottolineare come tra meteo e clima ci sia una lievissima differenza, fuori, dicevo, sabato pomeriggio, piove, ora potrei aprire l’ennesima parentesi e raccontarvi di come, quando ancora la scrittura non era il mio mestiere, ma forse neanche la mia passione, lo era invece già da tempo la lettura, vedo su Google che il libro che sto per andare in effetti a citare è uscito a febbraio 1993, confermo quanto appena scritto, mi appassionai molto di una raccolta di racconti brevissimi di Gabriele Romagnoli, che ai tempi scriveva credo per il Corriere della Sera, racconti di trenta righe nella cui ultima riga veniva sempre rovesciato il senso dei racconti stessi, questo le regole di ingaggio che Romagnoli si era imposto nello scriverli, raccolta che si intitolava Navi in bottiglia. Il mio preferito di quei racconti si intitolava L’uomo con la pioggia dentro, fulminante, davvero, ma sarebbe una parentesi di troppo, per cui passo oltre, nel mentre c’è un ragazzo che sembra Andy dei Bluvertigo che sta parlando con l’attore che interpretava il Dottor Sloan in Gray’s Anatomy, la scena della sua morte, come quella di Ciccio Green o di Lucy in ER. Medici in prima linea, tra le più dolorose che io ricordi, perché sì, le serie che guardo la sera, cioè non mentre sto lavorando, e spesso io la sera guardo con mia moglie serie medical, le guardo con attenzione e anche con trasporto, al punto di affezionarmi ai protagonisti, come fossero persone reali, potenza della bravura degli showrunner americani.
Non ho citato, perché è un testo che ho già letto, ma che sta ancora sul comodino perché leggendolo ho avuto la sensazione che mi stessi perdendo qualcosa a ogni pagina, denso di input e di anomalie quale è, Più brillante del sole, vera pietra miliare della controinformazione a firma Kodwo Eschun, uno degli intellettuali britannici di maggior rilevanza, al fianco del compianto Mark Fisher e di Simon Reynolds. Il suo Più brillante del sole è il testo base sul rapporto strettissimo tra afrofuturismo e musica, immagino che Saul Williams non se lo sia perso. Citare Kowdo Eschun e Mark Fisher e non citare il Ccru, cioè la Cibernetic Cultur Research Unit, nato nel 1995 alla Warwick University, sarebbe un errore fatale, ma anche essere finito di fronte a questa vasta prateria, da una parte il cyberpunk, e più in là ancora il già citato Deleuze e anche William Burroughs e James Ballard, micce intellettuali dichiarate e riconosciute, dall’altra l’accelerazionismo, al mio fianco, oltre al tablet e al resto, ci sono un paio di agende e Accelerazione di Edmund Berger, anche questo pubblicato da Nero Edizioni, è qualcosa che non credo di riuscire a affrontare ora, dopo oltre duemilacinquecento parole scritte, duemilaciquecentotrentasette, per l’esattezza, a partire dal mio dire che ero alla ricerca di stimoli, stimoli che ho evidentemente trovato, lo scopo di questo mio cercare, a questo punto, a pochi metri dalla fine, posso anche dichiararlo, non tanto quello di scrivere un pezzo, figuriamoci se è necessario un mio pezzo sul nulla, quanto scrivere un pezzo che potesse mettere in difficoltà l’intelligenza artificiale, meglio nota come ai, ci provasse l’ai, infatti, a scrivere un testo di duemilaseicento e passa parole che spazino tra una visione piovigginosa e svogliata di Euphoria, la scoperta che Saul Williams ha diretto quasi tre anni fa un musical afrofuturista con sua moglie, Neptune Frost e tutta una serie di divagazioni sul tema, che si tratti di musica, libri o quel che è. A chiusura del tutto, tanto per trovare una quadra e lasciare che una certa simmetria, contestabile quanto si vuole, specie nel campo della creatività, e la scrittura è parte della creatività, ma pur sempre rassicurante, e anche qui, diamo per assodato che la creatività debba e voglia e possa essere rassicurante, a chiusura del tutto, mentre mi sono trasferito nello studio, fuori sta cominciando a scendere la sera, anche se la primavera è davvero alle porte, stante che sono quasi le diciotto e ancora ci si vede senza dover ricorrere alla luce artificiale, a chiusura del tutto vorrei citare ancora una volta Zendaya, che per intendersi ho incrociato televisivamente la prima volta a causa dei miei figli, ne ho quattro, che la seguivano nella serie Buona fortuna Charlie, e che poi io ho personalmente scoperto nella splendida e incompiuta, splendida anche perché incompiuta The Oa, geniale e strampalata serie di Brit Marling, una che credo si sia appassionata negli anni a molte delle tematiche care a quei pazzi del Ccru, le sue opere, come sceneggiatrice e regista oltre che come attrice, penso a Another Earth, The East, il già citato The Oa come il recente A Murder at the End of the World questo ci dice, Brit Marling in compagnia di Zal Batmanglij, nel caso di The OA come di altre opere, a chiusura del tutto, vorrei citare ancora una volta Zendaya, stavolta non nei panni della tossica protagonista di Euphoria, distrattamente mi sono accorto che nella serie in questione, a un certo punto, stava limonando a letto Hunter Schafer, quanto piuttosto per aver sfilato alla prima del secondo episodio di Dune, diretto da Denis Villeneuve, vestita come un cyborg, fatto che mi potrebbe portare a tirare in ballo altri libri, oltre ai superclassici Manifesto Cyborg e Chthulucene di Donna Haraway, anche Homo Cyborg di Naief Yehya, ma che invece mi permette di chiudere, appunto, la simmetria, il cerchio, il corpo che si mescola alle macchine, l’AI che si pone come ipotetica evoluzione dell’uomo sancendo il passaggio da Homo Sapiens a Post-umano, come da Donna Haraway indicato. Per essere un sabato pomeriggio piovoso e anche un po’ sonnacchioso di cose ne ho dette, chissà se ChatGPT, mettendoci dentro “cazzeggia con lo stile del critico musicale Michele Monina intorno al niente” sarebbe stata in grado di fare altrettanto.