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Abbiamo visto al cinema “Giurato numero 2” di Clint Eastwood, ma com'è? Per fortuna non serve un messaggio positivo a tutti i costi per fare un grande film...

  • di Domenico Agrizzi Domenico Agrizzi

20 novembre 2024

Abbiamo visto al cinema “Giurato numero 2” di Clint Eastwood, ma com'è? Per fortuna non serve un messaggio positivo a tutti i costi per fare un grande film...
Conta più il messaggio o il suo svolgimento? Il tema o la storia? Molti si interrogano sulla direzione che il cinema contemporaneo deve prendere. Clint Eastwood, a 94 anni, ha preso la sua decisione, ostinandosi a parlare di dubbi, mentre gli altri sono alla ricerca di verità. Un film che rischiava di essere fuori tempo massimo, questo è certo. Perché parlare ancora delle motivazioni dei colpevoli e le colpe degli innocenti? Nel “legal thriller” con Nicholas Hoult e Toni Collette hanno tutti ragione. E questo complica inevitabilmente le cose. Ma così è la realtà…

di Domenico Agrizzi Domenico Agrizzi

Nell’epoca dei film che vogliono trovare l’assenso del pubblico essere visti (si guardi, per esempio, al “sabotaggio” di Joker: Folie à Deux), Giurato numero 2 di Clint Eastwood fa eccezione. Non ci sono quelli che incarnano gli ideali della nuova sensibilità contro la vecchia visione del mondo: la salute mentale, le forme di sessualità giustamente sdoganate, la famiglia non tradizionale finalmente in via d’accettazione; né gli idoli in stile Joker, avanguardie di una rivoluzione a cui tutti guardiamo con favore, ma che nessuno ha la forza di mettere in pratica. D’accordo la complessità, ma alla fine una parte giusta della storia ci deve essere sempre. Giurato numero 2 non è neanche un film in cui conta il “messaggio”: anzi, sembra proprio che l’esito della sceneggiatura di Jonathan Abrams sia la falsità dei possibili presupposti morali attraverso cui inquadrare la vicenda. Nel tribunale in cui si svolge il film hanno tutti ragione: ce l’ha l’avvocato di difesa di James Sythe, accusato di aver ucciso la propria ragazza dopo una litigata pesante in un bar; Toni Collette, nei panni di un pubblico ministero in campagna elettorale il cui cardine è la lotta alla violenza sulle donne, convinta invece della colpevolezza dell’uomo, dati anche i suoi precedenti e le testimonianze; i giurati, tutti (tranne uno) pronti a condannare Sythe che, seppur potenzialmente innocente, forse merita comunque il carcere. E sono comprensibili i dubbi del protagonista, Justin Kemp (Nicholas Hoult), che scopre di essere finito dalla parte sbagliata della sbarra: il dubbio è che sia stato lui ad aver ucciso Kendall, investendola accidentalmente mentre tornava a casa di notte dopo essere stato nello stesso locale dove la coppia aveva litigato. Il responsabile del programma degli alcolisti anonimi (Kiefer Sutherland) lo ammonisce: per uno come lui confessare significherebbe carcere a vita. E a casa ha una moglie incinta, Allison (Zoey Deutsch), che in passato ha già perso dei figli e sta portando avanti una gravidanza ad alto rischio. Kemp cerca quindi di agire nel proprio interesse, ma allo stesso tempo di salvare dal carcere Sythe. È lui, infatti, a contestare gli altri giurati, tutti certi della colpevolezza dell’imputato.

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Nicholas Hoult e Clint Eastwood
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Quando gli interlocutori hanno tutti ragione, nessuno possiede la verità. E se nessuno possiede la verità, come si può mandare un messaggio? “Questo sistema per quanto imperfetto è la nostra migliore possibilità di trovare una giustizia”: è l’idea di fondo del film, compressa nelle parole della giudice. Una posizione, però, che è solo il punto di partenza, ma non l’esito del film. Quella una tesi si rivela solo un’ipotesi. O un’ammissione di impotenza del regista, che rinuncia a trovare il giusto verso da cui guardare il processo. Se anche Justin Kemp avesse confessato, sarebbe stato opportuno condannarlo con il suo passato come aggravante? Sarebbe stato giusto lasciare sole una moglie e una figlia in arrivo per un incidente? E, spingendo al limite il ragionamento morale dei giurati: non merita un uomo violento come Sythe una condanna per femminicidio, seppur non sia stato lui l’esecutore materiale? Eastwood conosce i bias delle corti degli Stati Uniti (le domande di un avvocato sono le stesse indipendentemente dal colore della pelle dell’interrogato?), i limiti di una giuria composta da 12 persone, ognuna con pregiudizi, poco tempo da dedicare al “bene comune” e la voglia di raggiungere sbrigativamente la verità. E tutto questo viene messo in conto. Il rischio che Giurato numero 2 diventasse un film fuori tempo massimo era alto: perché mai nascondersi dietro al polveroso elemento del dubbio, potrebbe chiedersi qualcuno, se viviamo il tempo in cui le decisioni radicali diventano sempre più necessarie, anche a costo di far saltare qualche testa innocente? Del resto, le rivoluzioni comportano sempre morti collaterali. Il dilemma morale di Kemp non è niente di nuovo, questo è certo. E la verità da sempre non è mai stato sinonimo di giustizia. Ma Clint Eastwood si lega ostinatamente a questo punto, e la sua determinazione diventa parte stessa della riuscita dell’opera. Senza accontentarsi di mandare un messaggio, Giurato numero 2 preferisce restare fuori tempo, mettendo il dubbio sopra la certezza, tenendo insieme le ragioni dei colpevoli e le colpe degli innocenti. E il finale non poteva che restare aperto.

"Giurato numero 2" di Clint Eastwood
"Giurato numero 2" di Clint Eastwood
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