Certi film si trasformano in bersagli polemici. Le ragioni possono essere molteplici, ma quella più ovvia e comune è senza dubbio l’insoddisfazione del pubblico. Specie se si tratta di un pubblico affezionato all’universo narrativo della Dc Comic Universe. Specie se il protagonista del film è Joker. Da giorni, infatti, vengono spese parole per dimostrare quanto sia brutto Joker: Folie à Deux di Todd Phillips. Il primo capitolo aveva convinto (quasi) tutti ed era stato premiato alle manifestazioni più prestigiose: alla Mostra del cinema di Venezia aveva vinto il Leone d’oro, mentre Joaquin Phoenix si aggiudicò il premio Oscar come miglior attore. Insomma, un successo enorme. Questo secondo film, però, cambia tutto. Non solo dal punto di vista di come si può intendere il Joker “rivoluzionario”, ma anche sui significati che l’intera opera portava con sé. Folie à Deux rovescia il finale liberatorio con cui si concludeva la precedente pellicola: c’è la prigione, gli spazi chiusi, gli orari prestabiliti e il controllo delle guardie. Arthur Fleck è svuotato, non riesce nemmeno più a raccontare quelle barzellette che facevano ridere solo lui. L’unico spiraglio sono le lezioni di musica che gli vengono concesse. E in una di queste conosce Harley Quinn, interpretata da Lady Gaga. La relazione con la donna non libera materialmente Arthur, ma quantomeno gli permette di riacquistare la capacità di immaginare sé stesso in modo diverso. La mente come spazio di autodeterminazione. Ovviamente, è solo apparenza. Segue poi il processo e il tentativo da parte del suo avvocato di alienare il Joker dallo stesso Arthur: le due personalità non coincidono, sono parti scisse di un unico uomo. Eppure, il protagonista non vuole rinnegare l’altro lato di sé. Una presa di responsabilità che annulla l’ipotesi dell’incapacità di intendere di volere che potrebbe salvarlo dalla pena di morte. Anzi, senza il Joker verrebbe meno anche l’amore di Harley. E a questo Arthur proprio non vuole rinunciare.
Il piano dell’opera, dunque, dal terreno politico (o presunto tale) sembra volersi spostare su quello del sogno, del potenziale e non più dell’attuale. Il lato “bombarolo” di Joker sacrificato in nome di una consapevolezza: che quella è la storia di un individuo che al massimo può rifugiarsi nella sua mente. Da lui parte a macchia d’olio la voglia di cambiamento, di libertà di tutta Gotham. Ma Arthur dimostra di non riuscire a tenere il passo con ciò che ha creato, di aver risvegliato un’energia che non riesce a controllare. Un’ammissione che, forse, appartiene a Joker ma anche allo stesso regista. Cosa rimane a un’artista se non la musica, l’immaginazione, il canto? La rivoluzione, sembra suggerire il film, viene dopo. E non, soprattutto, non basta una maschera a suscitarla. Nemmeno quella di Joker. Tutti avevano elogiato Phillips per ciò che era riuscito a creare nel primo capitolo, e chissà che l’idea di dividere il film in due parti non fosse dovuta a questo: fin dall’inizio era chiaro che l’epilogo non sarebbe stato quello che il pubblico si aspettava. Dunque le critiche erano già state messe in conto. Francis Ford Coppola, anche lui “colpevole” di aver deluso gli spettatori con Megalopolis, in questi giorni ha parlato di “Jokeropolis”: un concetto che sintetizza la scelta di un regista di fare un film consapevolmente contro ciò che i fan si aspettano. L’antitesi del “Barbenheimer” che aveva trascinato il box office e i consensi di pubblico e critica E sicuramente Philips non ha avuto paura. Perché, leggiamo sui vari siti e le recensioni, rendere quasi un musical una storia così forte come quella di Joker? Scelta, come tutte le scelte, discutibile. Specie se, come in alcune parti capita, il canto viene in soccorso là dove la complessità del rapporto tra Arthur e Harley potrebbe essere maggiormente sviluppata. Resta comunque apprezzabile il coraggio, la decisione forte di Phillips di non dare in pasto ai seguaci della Dc ciò che volevano. Mettendo in discussione anche il proprio film più di successo, che certamente verrà visto sotto una luce diversa.