Stecche di sigarette, Jack Daniel’s, qualche paio di jeans e navi da guerra. Rimane questo degli Stati Uniti in Italia dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Forse però, più dei prodotti, è rimasto un principio: il libero scambio, non per forza equivalente. Claudio Giovannesi, regista di Fiore e La paranza dei bambini, ha deciso di portare al cinema una leggenda metropolitana che si racconta a Napoli, la città che più di tutte sta definendo l’autunno cinematografico italiano. In Hey Joe il protagonista è Dean Barry, interpretato da James Franco, un ex militare americano che nel 1944 ebbe una relazione con una donna napoletana, Lucia, rimasta poi incinta. La promessa ovviamente non mantenuta era quella di ritornare una volta nato il bambino, ma Dean rimane in America per i successivi venticinque anni. Un vecchio telegramma ritrovato in qualche ufficio postale lo avverte della morte di Lucia, e del fatto che il figlio, Enzo, vorrebbe conoscerlo. La data sul documento è 1958, mentre ora siamo nel 1971. A quel punto Dean, alcolizzato e senza lavoro, decide di partire per Napoli e provare finalmente a essere un padre. Enzo (Francesco Di Napoli) però non sembra voler accettare le attenzioni del genitore: ormai ha la sua vita da criminale, vende droga e tutto ciò che gli capita, seguendo gli ordini di Vittorio (Aniello Arena), il malavitoso che lo ha cresciuto. Ad aiutare Dean nella riconciliazione c’è Angela (Giulia Ercolini), una prostituta conosciuta in un night club. Gli anni vissuti lontani sono tanti, e padre e figlio oscillano l’uno verso l’altro, cercando il punto d’incontro, per recuperare il tempo perso. Nel mezzo, semplicemente la vita, la povertà, i soldi che mancano.
La guerra insegna l’arte di arrangiarsi ai poveri, a coloro che cercano di arrivare a fine giornata sfamando la famiglia. Lavoretti, compromessi, piccoli crimini, prostituzione. E per chi non ha più scelta, anche la malavita. Sicuramente Hey Joe parla dell’Italia e di Napoli dopo la guerra, della vita dei liberatori nell’Italia post-fascista e di come, anni dopo, la presenza dei dollari americani fosse benzina per l’economia sotterranea della città. Il film dice molto di Napoli, questo è certo. Ma dice molto anche sugli Stati Uniti. “Ora che gli Americani se ne stanno andando”, diceva il protagonista di Napoli – New York di Gabriele Salvatores, “non c’è più lavoro”. In parte è vero anche per Hey Joe, anche se per quest’ultimo sarebbe meglio dire che il lavoro è stato sostituito dal baratto. Il Dean di James Franco dall’inizio alla fine muove merce: vende l’auto per pagarsi il viaggio (e gli alimenti alla moglie), fornisce sigarette e bottiglie ai clienti di Angela per il biglietto d’aereo, cerca di piazzare una Luger, la pistola-trofeo di eredità nazista tanto ambita dai collezionisti, per rimanere in Italia. E come ogni arma che compare in una narrazione, anche la Luger prima o poi deve fare fuoco. La fotografia di Daniele Ciprì sembra suggerirci che la guerra è un elemento inseparabile dalla presenza americana persino in tempo di pace. Anche nel flashback in cui il protagonista ricorda un pranzo con la giovane napoletana con vista sul golfo una portaerei rimane sullo sfondo. Anche quando si tratta di amore, quindi, non si può fare a meno di pensare al conflitto. E sono soprattutto la pervasività del meccanismo dello scambio, l’affarismo, il do ut des ininterrotto che permette a Dean di farsi strada nella città italiana a rimanere in primo piano. Un uomo costretto a barattare i suoi sentimenti con sigarette comprate in ambasciata e finti alibi in cambio di un po’ di tempo insieme al proprio figlio. Una città, Napoli, in cui tutto è in vendita se l’offerta è giusta. Nella storia scritta da Giovannesi, Massimo Gaudioso e Maurizio Braucci, James Franco prova ad allontanarsi da questa sua natura economica. Cerca relazioni vere, disinteressate, un amore sincero, in cui la moneta di scambio non è un prodotto acquistato dallo scaffale di un centro commerciale, ma la promessa di una vita diversa.