Prima della religione, della provenienza, del colore della pelle e della “compatibilità culturale”: l’accettazione in un Paese diverso dal nostro passa dal reddito. “Non ci sono stranieri, ma solo poveri”. I ricchi, invece, sono a casa loro ovunque. In Napoli – New York di Gabriele Salvatores gli italiani sono i migranti, le persone ai margini, quelle su cui si fanno battutine e si spendono pregiudizi (“sporchi, odiano l’acqua, parlano una lingua che non capiamo”), scansate lungo i marciapiedi dagli americani. Loro sì, gente onesta. È storia, non solo finzione, ogni tanto fa bene ricordarlo. Non sempre i film che mandano “messaggi” funzionano, il rischio di risultare retorici è concreto. Ma Napoli – New York è una favola: ed è la struttura favolistica a permettere l’impiego di una “morale”. Nel 1949 due bambini rimangono orfani dopo il crollo di un palazzo a Napoli. Vivono alla giornata vendendo sigarette, rubando quando si riesce. Nel porto è attraccata una nave americana, dove a controllare che non salgano clandestini è l’ufficiale Domenico Garofalo, interpretato da Pierfrancesco Favino. I due bambini, però, riescono comunque a imbarcarsi senza essere scoperti. Ormai non si torna indietro: Napoli rimane sullo sfondo, New York è l’obiettivo. Qui vive anche la sorella di Celestina, Agnese, che si è innamorata di un militare americano in servizio in Italia che le ha mentito: in realtà era già sposato (ed era violento con la moglie), e la donna rischia la pena di morte per averlo ucciso.
“Chi governa ha il compito di unire le persone, non dividerle”, ha detto Gabriele Salvatores in un’intervista. Il messaggio, quindi, non è rivolto solo al pubblico. Gli italiani, comunque, ne escono come quelli che alla fine se la cavano. Carmine, per esempio, dice sempre la cosa giusta. Dopo essere salito clandestinamente, risponde al capitano della nave che voleva condannare il cuoco nero, George: il ragazzino nega, guadagnandosi un alleato. A Celestina bastano poche parole per dire la verità (che peraltro tutti già sanno): “Che v’agg a dicere?”. Sono poveri, non stranieri. Napoli – New York però guarda al presente anche in altri modi. Uccidere il proprio abuser forse non è giusto, ma è comunque legittimo: quando Salvatores ci porta in aula, al processo per Agnese, la prospettiva del regista non è affatto neutra. Insomma, immigrazione, violenza sulle donne e anche il ruolo della stampa nella costruzione dell’opinione pubblica: è il personaggio interpretato da Antonio Catania, direttore siciliano di un giornale di Little Italy, a lanciare la campagna grazie alla storia dei due scugnizzi e della sorella in attesa di giudizio. E l’elettorato risponde. In questo senso, forse, cinema e giornalismo si somigliano: entrambi producono storie che, al di là delle intenzioni, muovono coscienze e voti. Il film, poi, è un omaggio ai grandi autori italiani. Oltre al soggetto inedito di Federico Fellini, ci sono la nave di Novecento (sì, la cgi si poteva usare meglio), Paisà di Roberto Rossellini proiettato in un cinema di New York, la strada con il ponte di Brooklyn sullo sfondo di C’era una volta in America di Sergio Leone. Forse è anche per questo che il ministero della cultura ha deciso di finanziare il progetto? Salvatores riesce a muoversi tra critica del presente e celebrazione del passato. La sua Napoli è certamente meno spettacolare di quella di Paolo Sorrentino, e l’America si rivela un paradiso con qualche ombra. Non c’è dubbio che il lieto fine possa anche risultare stucchevole e finto, specie per la durezza con cui i temi trattati dal regista si impongono quotidianamente. Al centro c’è il sogno di due bambini, e il cinema può trasformarlo in verità. Senza togliere alla favola di Napoli – New York una struttura non solo morale, ma soprattutto politica.