Cobra Kai non c’entra niente con Karate kid. Non è la grande metafora della vittoria del bene contro la violenza del male, non è l’elogio della mitezza e della pietà. Siamo passati dal “metti la cera, togli la cera” (anni Ottanta) alla legge del pugno sciacquata nell’Arno del maestro Miyagi. È praticamente l’incarnazione del sogno americano, risse più successo, aspirazione più lotta, fatica più disciplina, rispetto della gerarchia più libera adesione a questa o quell’altra squadra. Netflix ha appena pubblicato la prima parte dell’ultima stagione (la seconda arriverà a novembre) e sono cinque episodi praticamente perfetti. Alcune serie hanno perso mordente - vedi The Boys, una parodia delle prime stagioni, che erano a loro volta una parodia del trumpismo - ma non Cobra Kai. Siamo all’ultimo livello di un videogioco a base di botte dentro e fuori dal tatami e davvero, niente spoiler, la sfida è all’altezza delle aspettative. Siamo anche all’ultimo anno prima del college e questo rende il tutto quintessenzialmente americano: una specie di High School Musical della Scuola di Hokuto. La formula è quella giusta. I ragazzi si picchiano, e forte, si perdonano, si perdono, non sempre recitano benissimo e, probabilmente, non combattono mai decentemente.
È una serie il cui messaggio finale è talmente irrilevante ai fini della storia che puoi goderti qualche cazzotto, molto sole (non piove mai in cinque puntate), e degli effetti speciali a.S.W. (avanti Star Wars), roba da uscite in dissolvenza di Power Point con serpenti e contorni appannati dell’inquadratura. Bellissimo. Cobra Kai è appagante perché non impegna il cervello ma ha i ritmi giusti per far sì che uno scelga di guardarsela in un solo giorno, o non appena si hanno circa quaranta minuti liberi. È la versione migliore del fenomeno Netflix, l’altra faccia delle grandi produzioni che fin dall’inizio - vedi House of cards - hanno contraddistinto la piattaforma. Se da un lato abbiamo gli intrecci, l’imprevedibilità, una statura attoriale ineguagliabile, qui abbiamo un cast di sopravvissuti (Ralph Macchio, William Zabka, Martin Kobe) e di nuovi volti ancora tranquillamente ignorabili (Xolo Maridueña, Tanner Buchanan, Peyton List e Mary Mouser). È una serie che non chiede di essere presa sul serio e noi ringraziamo, con quaranta gradi fuori casa, il cambiamento climatico, due guerre a ridosso dell’Europa e del Mediterraneo, cambi di governo in Ue, elezioni americane e tanto altro.
Sia lode a chi ha inventato le botte. Le botte come estensione del sogno americano. Nella Valley le botte sono un modo di sfogarsi (per un lutto), per crescere (ed evitare problemi con la legge) per andare all’università (borse di studio per lo sport? Ma non è fasssssissssta?). Sapete cos’ha Cobra Kai che le altre serie non hanno? Quella che in letteratura viene definita recusatio. O meglio, recusatio-excusatio. Per intenderci: la recusatio è quella di Quentin Tarantino, che ha il genio e il talento ma può fare anche filmetti volutamente non impegnati come Grind House. La recusatio-excusatio, invece, è l’incapacità di fare arte di genere alto e quindi si evita coscientemente di farla. Cobra Kai è una serie ben fatta che non sopravvaluta i propri mezzi. Per questo fa ridere e raramente piangere, può fare innervosire ma difficilmente indignare. Sia lode ai bollini verdi che diventano per colpa dell’ipersensibilità di pedagoghi e politici bollini gialli (immagino il “13+” per violenza). Sia lode alla legge del pugno del Cobra Kai.