Non so esattamente quando, ma c’è stato un giorno nel quale, così, di botto, sono passato dall’essere quello che se non stava sotto il palco, appiccicato alle casse durante i concerti non era contento, a uno che vuole starsene seduto comodo, possibilmente in teatro, e che comunque, a dirla tutta, se proprio non è costretto con la forza pur di non andare a un concerto sarebbe disposto anche a inventarsi di essere stato colpito durissimo da una pugile algerina. Cioè, un attimo sei lì che ti dimeni come il Kevin Bacon di Footloose, e l’attimo dopo sei sempre Kevin Bacon, ma in uno dei tanti ruoli da villain che ultimamente lo vedono come interprete. Non credo, però, suppongo diciamo tutti così, che sia tanto una questione di anagrafe, proprio in questi giorni sono in vacanza nelle mie Marche e spesso mi capita di pensare: “Dio mio quanto è invecchiato rispetto a me”, aggiungendo in coda il nome di Tizio o Caio che magari venivano a scuola con me, una vita fa, resto sempre il ghepardo di una volta, né una questione di boomerismo, sono pur sempre uno splendido cinquantacinquenne che, certo, per questioni di lavoro, sa suppergiù nomi e repertori di tutti quegli artisti “novissimi” che ai miei coetanei fanno, anche a ragione, cagare (anche a me, ma almeno so il nome e il repertorio di chi mi fa cagare, non è poco), penso piuttosto sia una questione di saturazione, di overdrive, di sovraccarico. Mi spiego. Quando ero giovane, sì, lo so, è una frase da vecchio e da boomer, ma provate a seguirmi, quando ero giovane l’estate era caratterizzata da una serie di eventi dal vivo, chiamiamoli a volte con generosità concerti. C’erano quelli degli artisti cool, che suonavano a pagamento in stadi, arene e luoghi preposti all’ascolto di musica, e in genere, quando ero giovane vivevo nelle Marche, erano pochi e quasi sempre in luoghi di mare. In una estate, che so, ne contavi cinque o sei, di questo tipo di concerti, i tour venivano annunciati un paio di mesi prima e i biglietti erano cari, ma accessibili a un pubblico anche di ragazzi, cioè di gente che non generava economia. Poi c’erano le feste di piazza, cioè in quei medesimi luoghi di mare, e anche nei luoghi di mare dove quei concerti a pagamento non arrivavano anche per assenza di strutture idonee, c’erano serate di musica dal vivo, spesso con popstar del momento, o con vecchie glorie, che cantavano gratuitamente per la popolazione locale e i turisti. Spesso ciò accadeva a ridosso di una qualche festa patronale, o del Ferragosto. In assenza di internet, ma per quel passaparola che in fondo ci ha sostenuto fino a che non diventassimo tutti ebeti incapaci di muoverci senza usare Google Maps, si poteva passare le serate estive rimbalzando da una piazza all’altra, a volte ascoltando quelle che oggi verrebbero chiamate tribute band, certo, altre ascoltando Tizio, che aveva portato anni prima una canzone al Festival di Sanremo, o Caio, che era anche ben piazzato in classifica, ma con una sola hit in repertorio, oltre che gente come i Dik Dik, i Camaleonti e tutta una serie di artisti che risalivano già allora a quello che potremmo chiamare il paleolitico musicale. Poi c’eravamo noi. E per noi intendo quelli che suonavano in band che facevano musica propria, inedita, e in quel caso era inedita davvero perché incidere musica propria, quando io ero giovane, costava un occhio della testa (non in senso figurato).
A noi erano destinati altri palchi, minori, in posti dove di turisti ce n’erano pochi e quindi contavano sulla presenza di altri ragazzi che venissero a consumare birre e panini con la porchetta. Il tutto, però, rientrava nell’alveo dell’accettabile, cioè, difficilmente ci si trovava, parlo delle Marche ma immagino la cosa funzionasse così un po’ in tutta Italia, ad aver da sbattere la testa contro il muro per decidere se andare a sentire Tizio, Caio, Sempronio o tutta una serie di alternative, lì, nello stesso luogo, nella stessa sera. Oggi la faccenda è diversa, lo so, è un discorso da vecchio e da boomer, ma provate a continuare a seguirmi. Ovunque, e per ovunque intendo davvero ovunque, ci sono concerti, live, dirette con ospiti di radio nazionali, di tv nazionali, di format destinati al web, contest, festival, concerti gratuiti, tour di artisti cool, tour di artisti che hanno tirato fuori a stento una hit, tour di vecchie glorie, tour di vecchie glorie insieme, tutta una serie di revival, da quello sempre in auge degli anni Ottanta, a quello dei Sessanta, Settanta, Novanta, Duemila e via discorrendo. Poi ci sono i dj, le tribute band, i karaoke e chi più ne ha più ne metta. E sempre loro, quel loro che un tempo era appunto un noi, quelli che fanno musica propria, destinati a spazi angusti, ma comunque lì, vivi e vegeti. È in uno di questi spazi angusti, signori miei, che l’altra sera si stava per consumare una tragedia degna di finire nella trama di una riedizione di Footloose, una riedizione di Footloose con Kevin Bacon nella parte del cattivo, si suppone, e con i Burial of Babylon in quelli di Ren McCormack, che di Footloose era il protagonista. Perché succede che i Burial of Babylon, band metal dal nome quantomai epico e imponente, se ne stanno sul palco collocato nel cortile del Castello di Bereguardo, eseguendo una delle loro canzoni. Quando a un certo punto a Simone Maffei, vent’anni, chitarrista, comincia a prudere una spalla. Siamo nel pavese, la prima cosa cui Simone ha pensato, dichiarerà poi, è la puntura di una zanzara. Da quelle parti, va detto, le zanzare sono roba serissima, altro che band metal, cattive come il Pete Steel dei Type O Negative, e altrettanto assetate di sangue. Un prurito fastidioso, quindi, ma gestibile. Almeno all’inizio. Quando però il nostro scenderà dal palco, ancora infastidito, e nell’impossibilità di fermare questo bruciore, scoprirà di essere stato colpito da un pallino calibro 4,5 alla spalla, sparato da qualcuno nel pubblico. Glielo certificherà il Policlinico San Matteo di Pavia, aprendo in qualche modo uno scenario da Criminal Minds. Nel pavese, infatti, c’è un tizio che se ne va in giro con un fucile a pallini a sparare a chi suona. Ora, ci sono diverse possibilità. Simone Maffei, fossimo appunto al cospetto della crew di Quantico, potrebbe avere dei nemici, ma in caso sarebbero nemici sprovvisti di buona mira, un solo pallino non è che sia proprio un’arma di distruzione. Oppure, il tizio odia i Burial of Babylon, il che però prevederebbe un passo indietro abbastanza implausibile, il tizio dovrebbe infatti conoscere i Burial of Babylon per odiarli, e ci sentiamo di escluderlo a priori. Altra ipotesi, il tizio odia il metal, e questo ci starebbe, quindi se ne andrebbe per concerti metal sparando sul palco, ieri a Bereguardo, provincia di Pavia, magari la prossima volta a Milano, contro i Metallica o gli Iron Maiden. Anche questa sembra un po’ troppo fantasiosa. C’è l’ipotesi che fosse un residente della zona, infastidito dal rumore troppo alto, ma è estate, e di solito si chiede a tutti un po’ più di tolleranza, in radio passa a rotta di collo Sesso e samba di Tony Effe e Gaia, non ci fosse tolleranza saremmo tutti papabili serial killer.
Ultima ipotesi, quella che più amo, il tizio è uno che si è stufato che la musica dal vivo sia diventata la cosa che è oggi, una continua proposta di concerti e serate di scarsa qualità, ovunque, comunque e con risultati quasi sempre scadenti. Quello che un tempo era centellinato, per intendersi, oggi è sovradimensionato, pervasivo, addirittura invasivo. Dove ti giri c’è musica dal vivo, come del resto dove ti giri c’è musica, un tempo te la dovevi andare ad ascoltare in camera, con lo stereo e al buio, oggi ti perseguita, e visto la musica che gira ti perseguita davvero. Una sorta di vendicatore mascherato, quindi, munito di fucile a pallini, ma poteva anche essere più romanticamente a sale, che però se l’è presa con i più piccoli in circolazione, i Burial of Babylon, laddove sarebbe potuto andare a fare i conti con quelli grossi davvero, che so, Travis Scott o Taylor Swift. Certo, lì c’era la security, a Bereguardo dubito, ma se uno vuole fare il vendicatore deve mirare in alto, metaforicamente, mica se la può prendere con il primo metallaro che passa. Comunque, uomo avvisato, se vi capita di vedere Kevin Bacon, in fondo non dovrebbe essere difficile, è lui il titolare della teoria dei sei gradi di separazione hollywoodiana, dicevo, se vi dovesse capitare di vedere Kevin Bacon a un concerto, a una serata di Battiti Live, a una festa di piazza a Vasto, in Abruzzo, alla sagra dell’Uva di Cupramontana, a un contest o dovunque ci sia qualcuno che fa, bene o male, musica, mettetevi in salvo, è facile che abbia nascosto un fucile a pallini da qualche parte, pronto a fare giustizia per conto delle nostre orecchie e del nostro senso estetico.