Che Travis Scott abbia un rapporto speciale - anzi, unico - con l’Italia, non l’abbiamo di certo scoperto noi, sono i suoi concerti (solo negli ultimi dodici mesi due a Milano e uno a Roma) a confermarlo. È difficile, quasi impossibile, raccontare con lucidità quello che noi e altre settantacinque mila persone abbiamo vissuto nemmeno ventiquattr’ore fa. Ma andiamo con ordine. La giornata inizia prestissimo all’aeroporto di Palermo “Falcone-Borsellino” direzione “Malpensa-Berlusconi”. Assieme a noi, nonostante l’orario proibitivo almeno un centinaio di ragazzi, la maggior parte vestiti tutti alla stessa maniera: maglietta del merch di Travis, o una delle sue innumerevoli collaborazioni, ai piedi Air force one con calze di spugna bianche lunghe fino alle caviglie. Nonostante i quaranta gradi del capoluogo siciliano. Il viaggio in aereo scorre velocemente, qualcuno poco dopo il decollo decidere di accendere una piccola cassa bluetooth. Le canzoni riprodotte? Non potevano ovviamente non essere quelle del rapper di Houston. Nessuna lamentela da parte delle hostess, il volume contenuto e la massiccia partecipazione nell’aereo hanno fatto chiudere un occhio. Arrivati a Milano c’era un’ultima cosa da fare: arrivare all’Ippodromo La Maura per prendere i posti migliori possibili. Come vi avevamo già anticipato a maggio, noi di MOW non abbiamo preso alcun biglietto al Pit, nessun pass super vip con backstage incluso. Eravamo nel posto unico, dove c’erano i più e dove si faceva più casino. La lunga ed estenuante attesa sotto il caldo sole di luglio milanese non è stato il massimo, ma ne è valsa la pena. Ogni tanto qualche addetto alla sicurezza forse impietosito dalle nostre facce sudate lanciava acqua con un tubo verso la folla, allietandoci - anche se solo per qualche attimo -. Appena entrati si palesa davanti a noi la vera star della serata. Non Travis Scott e nemmeno Playboi Carti, ma Ivano Monzani, l’addetto alla sicurezza più famoso del web, diventato iconico per la sua espressione durante il LoveMi di qualche anno fa. Era lì, davanti l’entrata dell’Ippodromo, con la sua inconfondibile giacca segnaletica verde e il suo sorriso. Sembra un uomo gentile, soprattutto con le centinaia di persone che si avvicinano per un saluto, per scambiare due chiacchiere o per farsi un selfie con lui. Anche noi ci avviciniamo nonostante la folla oceanica, riusciamo a malincuore soltanto a salutarlo e a stringergli calorosamente la mano.
Entrati ormai da qualche ora nell’enorme palco verde che avrebbe ospitato il concerto, il tempo inizia a scorrere sempre più lentamente sotto il caldo sole milanese. L’Ippodromo si riempie sempre di più, le poche centinaia di persone presenti nel primissimo pomeriggio diventano migliaia, poi decine di migliaia fino ad arrivare a settantacinque mila persone, un numero vertiginoso. Mancava l’aria e tutti eravamo appiccicati come sardine. Qui iniziano i primi mancamenti, le prime giovanissime fan di Travis che vengono trasportate di peso dagli amici verso le ambulanze. “Non è possibile lavorare così - lamenta un venditore di bibite - come si fa a mettere a disposizione per l’evento più importante dell’anno solo sedicimila bottigliette di acqua, finite tutte quasi subito. Adesso - conclude rammaricato - potrete soltanto dissetarvi con Redbull o birra, non il massimo con questo caldo”. Pochi minuti prima del tramonto, quando ormai tutti eravamo stremati dall’attesa, arriva Travis. La sua entrata in scena è follia pure, iniziano tutti a urlare e saltare. Un ragazzino accanto a noi - poteva avere al massimo 18 anni - non riesce a trattenere l’emozione e scoppia in un pianto fragoroso, roba che nemmeno quando si sposa tua sorella. Inizia il panico, le urla, gli spintoni e tanto amati quanto pericolosi moshpit. Siamo purtroppo stati vittime inconsapevoli di quest’ultimo, nonostante le continue raccomandazioni degli amici: “Quando le persone si spostano e creano un cerchio - ci dicevano prima del viaggio – spostatevi altrimenti vi ammazzano”. A un certo punto proprio durante l’esibizione di Travis decine di ragazzi creano un cerchio umano lasciando noi e altri sfortunati nel mezzo. Durante il ritornello corrono tutti verso di noi e iniziano a spingerci come se fossimo peluche. In pochi secondi ci siamo beccati diverse gomitate al petto. Prendiamo qualche secondo per perdere aria ma siamo troppo esaltati da Travis per sentire dolore. Per noi siciliani, abituati al massimo al concerto del festino di Santa Rosalia, un’esperienza del genere è utopica. Ma i moshpit continuano e ci facciamo furbi, canzone dopo canzone. Dietro di noi una ragazza piange per essere stata colpita, ha un occhio viola e il trucco sbavato dalle lacrime. Più passa il tempo più la gente si fomenta. C’è chiunque, dal fattone con gli occhi rossi come il sangue al figlio di papà in camicetta e mocassino - probabilmente gettati nella spazzatura dopo il concerto. La puzza di erba a un certo punto era diventata la normalità: avremo aspirato l’equivalente di cento canne tutte di fumo passivo e contro la nostra libertà. Nonostante fossero stati millantati controlli delle forze dell’ordine senza precedenti non abbiamo visto nemmeno un carabiniere. La vera follia arriva quando è il momento per Travis di cantare Fein, forse il brano più apprezzato dell’ultimo anno. L’amore del pubblico per questa canzone è senza precedenti, tant’è che il dj la mette per nove volte di fila. Ogni volta che risuonava il ritornello la gente non capiva più niente e iniziava a saltare e spingere, e via col moshpit, l’ennesimo, ormai le botte ricevute erano così tante che nemmeno avvertivamo più il dolore. Qualcuno però era messo molto peggio: passa vicino a noi un ragazzone di quasi due metri con la maglietta sul volto, completamente intrisa del suo sangue, nonostante questo però non riusciva a smettere di ballare e urlare. Le vibrazioni prodotte dalla folla erano talmente intense che diversi milanesi hanno avvertito delle scosse di terremoto (sì, erano proprio quelle prodotte dal concerto, dato che Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia non ha rilevato nessun tipo di attività sismica).
Purtroppo, però tutte le cose belle prima o poi devono finire e il concerto di Travis non fa eccezione. Dopo un’ora e mezza che ricorderemo per tutta la vita, il rapper di Houston se ne va, ringraziando Milano per l’ospitalità. Quasi centomila persone vengono fatte aspettare per oltre quindici minuti prima di uscire, c’è chi si sente male, vediamo gente in barella, ragazze piangere e gente svenuta per la quasi totale assenza di aria pulita. Dopo un po’ vengono aperte due minuscole uscite da cui - con moltissima fatica - viene fatta defluire la mastodontica fila. Dopo il concerto sembravamo aver preso parte a una processione religiosa, una di quelle a cui siamo abituati noi del sud con migliaia di persone dietro un crocefisso. Questo non rovinerà comunque l’esperienza e il ricordo di una serata magica che ricorderemo per tutta la vita.