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Tre tristi paradossi della musica contemporanea: il pop che parla (solo) ai giovani, ribelli che diventano ricchi e outsider alla ricerca dei numeri. E “Sesso e samba” di Tony Effe e Gaia…

  • di Michele Monina Michele Monina

9 luglio 2024

Tre tristi paradossi della musica contemporanea: il pop che parla (solo) ai giovani, ribelli che diventano ricchi e outsider alla ricerca dei numeri. E “Sesso e samba” di Tony Effe e Gaia…
La musica contemporanea è attraversata da alcuni (e tristi) paradossi. Che fine ha fatto il senso ultimo della ribellione, la voglia di parlare a coloro che non si sentono parte delle grandi masse? Dov’è finito il potere del pop di parlare a diverse generazioni, grazie alla sua biodiversità? E tutti quei presunti outsider alla continua ricerca di numeri e record? Insomma, paradossi su paradossi. L’esempio emblematico di questa situazione è “Sesso e samba” di Tony Effe e Gaia. Ecco cosa ci dice sullo stato della musica contemporanea...

di Michele Monina Michele Monina

Piacere a tutti, facendo pop, scivolando in un genere di facilissimo ascolto, sicuramente lontano dalla propria comfort zone, duettando con artisti coi quali, non fosse appunto per andarsi a mangiare ulteriormente le classifiche, nulla si avrebbe a che fare. Piacere solo alla propria generazione, andando a parlare una lingua che escluda chi è più vecchio, anche solo di pochi anni. Parlo di lingua, certo, ma anche di musica, e parlo di modo di appoggiare la lingua sulla musica, di pronuncia, quindi. La nouvelle vague della musica italiana, Dio mi maledica per aver tirato in ballo Godard andando a parlare di gente che risponde al nome di Tedua o di Blanco, faccio due nomi davvero a caso, vive una strana situazione, schizofrenica. Da una parte c’è una strenua volontà di essere costantemente sotto l’attenzione di tutti, dove per tutti si intende chi ascolta la musica oggi in streaming, quella fetta di mercato che ci viene raccontata come dominante, ma che stando alla statistica rappresenta in realtà una porzione assai minima della popolazione, l’Italia è un paese di vecchi, ce lo ripetiamo tutti i giorni, ma poi a dettare la linea del mercato musicale sono quelli tra i dieci e i quattordici anni, se superi i venti sei praticamente quasi fuori target. Quindi ecco i duetti come quelli tra Tony Effe e Gaia, uso la loro orribile Sesso e samba come emblema della decadenza nella quale ci stiamo crogiolando, un rapper/trapper duro e puro che gigioneggia con una cantante pop in cerca di una propria poetica, Dio mi perdoni per aver speso questa parola qui e ora. Del resto, anche questo ce lo ripetiamo da tempo, il rap e la trap sono il pop di oggi, i numeri fatti su Spotify, i dischi di platino dati a secchiate, i tour da sold out, i San Siro o le grandissime arene a riprova di ciò. Bene. Dall’altra, però, c’è una volontà di tenere fuori dalla porta chi di quel preciso target anagrafico non fa parte. Un pop, quindi, che non sia per tutti, negando la propria precisa essenza di pop. Un pop che ha un preciso dress code che ti permetta di accedere all’interno, i buttafuori a fare il loro sporco lavoro. Le parole non si capiscono, mezze mangiate durante l’interpretazione. I testi non si capiscono, uno slang che a volte attinge al vissuto, a volta ne detta la linea. La musica sembra tutta uguale, perché è tutta uguale, pochi producers, troppi paletti che ne determinano gli ipotetici giri armonici, quindi le melodie, i bpm fissi, come fosse un dovere morale, è lo streaming, bellezza. Tutta roba incomprensibile per chi è nato, cresciuto e vissuto in un mondo fatto di biodiversità, i generi musicali, gli ambiti musicali (Sanremo, Festivalbar, il Concertone del Primo Maggio, i centri sociali, i locali dove si faceva rock, i Festival estivi, il Festivalbar, il Club Tenco, un tempo ognuno aveva il suo campo di gioco, e quasi mai esisteva crossover tra quei campi, quando succedeva, appunto, si parlava di crossover, non di normalità).

Tutta roba incomprensibile per la maggioranza della popolazione di una nazione, Dio mio sembro Roberto Vannacci, le cui classifiche di vendita, Dio mio vendita, qui siamo alle comiche, sono dettate da una minoranza tutt’altro che silenziosa. Una minoranza, e qui sta davvero il paradosso, roba degna di H.G. Wells, che in teoria non lavora, quindi non ha a disposizione economie, figuriamoci come sia possibile che questa bolla felice e virtuosa, raccontataci come felice e virtuosa da chi intorno a quella bolla prospera, discografici e associazioni di categoria, sia reale e non virtuale, una filiera economica portata avanti da chi economie non ha e quindi economie non muove (del resto sono gli stessi che ci parlano del boom dei vinili, e stiamo parlando di numeri che un tempo avrebbero indotto chi li avrebbe dovuti presentare come risultati a fare seppuku un pubblica piazza come Mishima). Un paradosso, appunto. E una dicotomia, o meglio un bipolarismo comportamentale, il voler piacere a tutti ma al tempo stesso il non voler piacere alla stragrande maggioranza, leggi alla voce schizofrenia. Cui va aggiunto, e magari a questo punto qualcuno potrebbe anche pensare che io sia prevenuto, o abbia comunque qualcosa da contestare a chi mentre sto scrivendo, in un qualsiasi giorno dell’anno del Signore 2024, avrà fatto numeri tali in streaming da aver ricevuto una ennesima certificazione, avrà tirato fuori una qualche data di un tour che sarà subito andata sold out, o avrà raggiunto un qualche risultato spaventoso, da record, pronto da essere strillato da uffici stampa che, diciamo anche questo, lavorano comunque a gran fatica su questi nomi, quelli che potete immaginare guardando la classifica, assai poco interessati a tenere rapporti con la stampa, perché funzionano da soli, anche grazie ai social, un paradosso cui va aggiunto, quindi, dicevo, l’aver tradito tout-court il proprio genere e lo spirito che l’ha generato. Perché è un dato di fatto, non è che me lo stia inventando io per mettere legna sotto questo fuoco, che i generi che di volta in volta, dalla nascita del rock’n’roll in poi, quindi da che la musica è diventata di volta in volta, giovanile, da contrapporre a quella degli adulti, i giovani fino a quel momento manco esistevano per il mercato discografico come per qualsiasi mercato, sono una invenzione di marketing del dopoguerra, leggetevi L’invenzione dei giovani di Jon Savage a riguardo, è un dato di fatto che i generi che di volta in volta sono arrivati a sovvertire quello che nel mentre era diventato mainstream, il beat, il prog, il punk, la new-wave, il post-punk, il rap, il grunge, ovviamente sono assai poco esaustivo in questo elenco, è per intendersi, ecco, è un dato di fatto che i generi che di volta in volta sono arrivati a sovvertire quello che nel mentre era diventato mainstream avessero in sé il germe della ribellione, quindi una strenua volontà di starsene a lato del sistema, seppur spesso nel sistema inclusi o presto inglobati e metabolizzati. Quella che un Eugenio Finardi d’annata avrebbe chiamato Musica Ribelle, roba fatta per andare controcorrente, sovvertire, provocare, piacere appunto a una minoranza, senza pretendere di finire in vetta alla classifica, anzi, del tutto intenzionata a non finirci. Attenzione, quindi, non un non voler arrivare a tutti che porta al secondo paradosso, quello di un genere che parli un linguaggio, testuale e musicale, alieno alla maggioranza della popolazione, adulta o anziana, ma un non voler essere inglobati nel sistema, ritenersi outsider, giovani ribelli che fanno la colonna sonora di chi della società contemporanea non è parte.

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Qualcosa che recentemente, ricordando la morte di Kurt Cobain, il grunge è in qualche modo il simbolo di un cambio di rotta a riguardo, baciati da un successo di massa del tutto inaspettato e assai poco ben vissuto, qualcosa che recentemente Douglas Coupland, colui cui si deve l’invenzione del termine Generazione X, titolo del suo romanzo d’esordio del 1991, così ha cristallizzato: “Per la Generazione X ‘il successo era fallimento sotto mentite spoglie’. All’epoca di Kurt Cobain se facevi qualcosa che piaceva alle masse era un problema”. Ci sarà pur un motivo per cui l’autore canadese, da tempo lontano dal mondo delle lettere, lui che nel mentre è divenuto un apprezzato artista visivo, resti uno dei massimi scrittori contemporanei. Ecco, a me sembra, ma anche a Coupland, che oggi la faccenda sia tutta diversa. Il successo è visto da molti di questi giovani artisti come una tappa fondamentale, da aver in carniere, certo, e da flexare senza ombra di pudore o umiltà. Pur con tutte le contraddizioni, anche in termini di distinzione tra reale e percepito, tra numeri fisici e numeri relativi, tra storytelling enfatico e mera cronaca. Nasci che fai barre in cameretta, per disagio esistenziale, e a volte anche sociale, ma quello a cui pensi è proprio l’esibire successo e ricchezza, comunque risultati, alla faccia del ribellismo. Sempre Coupland infatti, aggiungeva, e come dargli torto: “Oggi, invece, l’unico metro di giudizio sono i clic, e i numeri, i numeri, i numeri…”. Paradossi su paradossi, quindi, senza che per altro diano vita a situazioni almeno narrativamente affascinanti, di quelle che pretendano la presenza di una Olivia Durham o di un Walter Bishop.

Kurt Cobain
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