Ho sempre pensato che Alfonso Signorini fosse un po’, come scritto tempo fa, l’equivalente italiano e televisivo della regista Leni Riefenstahl, ma adoro rimanere una “voce che grida del deserto” del reale, quel luogo ostile che è l’intrattenimento spacciato per antropologia. Morto Silvio Berlusconi e buttate giù le statue -con buona parte dei freaks degni di Tod Browning- si auspicava a un ritorno alle origini, a quell’esperimento sociale che era il Grande Fratello passata la sbornia per la fine del Millennio, quel format che calcava in modo più claustrofobico e interessante l’antesignano americano: The Real World. Probabilmente la maggior parte di chi segue il Grande Fratello non conosce The Real World, non ha mai visto la serie Mtv -deputata a sensibilizzare sul bullismo nelle scuole- If You Really Knew Me, e ha una infarinatura delle edizioni Nip tramite pagine social come “Rivogliamo Mai dire gol”, ma c’è stato un momento -forse fino alla quarta stagione, a voler essere buoni- in cui questo reality è stato qualcosa di vero o, perlomeno, di interessante. L’idea di Pier Silvio Berlusconi di fare tabula rasa e tornare a un punto di equilibrio, alle origini, era stata accolta con eccessivo entusiasmo: il passo falso con la scelta di Rebecca Staffelli al posto di Giulia Salemi, che in prima serata è una figura decorativa e non dà modo ai detrattori di cambiare idea; così l’irrazionale desiderio di tenere Signorini nonostante il calo di share degli ultimi anni sia da imputare anche lui e a una conduzione ambigua, quando nei momenti migliori è confusionaria, come quella di Luca Giurato. Come puoi proporre un esperimento, osservarne le reazioni e raccoglierne i dati se il programma è perennemente sottoposto a controlli, che siano degli sponsor, del Codacons o di un gruppo di genitori timorati di Dio, poco importa: comunque vada sarà un fallimento. Come può definirsi uno studio umano quando un gruppo è perennemente condizionato dalle logiche perbeniste di mercato (Alex Belli definì perfettamente lo scopo del Gf, in diretta nella casa, alla sua compagna: “Qui facciamo product placement”), dove non ci sono le condizioni necessarie per esprimersi liberamente, nel bene e soprattutto nel male. Nessuna azione come reazione è spontanea, naturale, ma si piega alle indicazioni poco velate degli opinionisti del momento quando apostrofano certi concorrenti ritenendoli troppo calmi e il messaggio è chiaro: devono creare polemiche e clip a ogni costo.
Certo, come in ogni esperimento gli input devono esserci: in un momento particolarmente down del programma, gli autori di The Real World spinsero i partecipanti a parlare di Aids e di razzismo (considerate che era il 1992 ed entrambi i temi erano delicatissimi), ed era interessante vedere la reazione e l’opinione di persone con un retroterra così diverso tra di loro. All’ennesima edizione di un formato ormai stanco, si istigano i concorrenti ad assumere la logica del branco (checché lo si neghi in prima serata), della pressione psicologica (anche tramite isolamento di determinati inquilini) ricalcando, in questo modo, lo stesso pervasivo e violento modus operandi che attira le visualizzazioni sulle piattaforme come TikTok. In un’epoca dove la gente si accontenta del sexting -perciò ci siamo liberati dal sesso, o almeno dall’erotismo- e la media delle persone non brilla culturalmente, gli stessi autori -forse- hanno capito che solo la sopraffazione attira il pubblico da casa scatenando nel migliore dei casi una sindrome da crocerossine per il concorrente vessato di turno (Beatrice Luzzi quest’anno fa sembrare l’esperienza di Marco Bellavia una scampagnata), nel peggiore nascono tifoserie e fandom assolutamente tossici. Paradossalmente, però, episodi come la manata di Ascanio Pacelli a Patrick Ray Pugliese nel 2024 risulterebbero impensabili; così come il racconto di una prodezza sessuale di Fedro (Grande Fratello 3) su una amica svenuta, o il mezzo australiano Bob che apostrofava le inquiline col suo leitmotiv “So’ peggio delle put*ane”. Negli ultimi anni ci sono concorrenti più (Fausto Leali) o meno (Denis Dosio) Vip che sono stati squalificati per il niente mischiato con il nulla (mentre le origini delle selezioni di Anita Garibaldi sono state chiarite dalla stessa e censurate dalle telecamere) perché il format non perdesse quella porzione di pubblico liberissima di non guardare quello stesso programma (non ci fosse scelta come all’epoca de Il carosello, capirei).
Quando ancora usciva il magazine del Grande Fratello, la striscia oraria come la puntata settimanale erano belle che ripulite, modellate per soddisfare le esigenze di un mondo che da poco conosceva il parental control: insomma, quello spettacolo dignitoso che entra in milioni di case e famiglie, come adora ricordare Signorini quando non riesce a soffocare i giusti rigurgiti di sdegno contro il politicamente corretto. L’esperienza reale del Grande Fratello era lasciata a chi, come noi abbonati dei primi Anni Zero, pagava una quota in più a Sky (ricordate? Dal 2004 si accedeva al full time solo tramite Sky) per avere una visione completa e continua degli inquilini (cosa che avviene pure adesso pagando un abbonamento Infinity+). Ma il pubblico è cambiato, così come i vertici Mediaset. Non voglio dare la colpa del declino della civiltà occidentale a certe minuzie, ma potevamo tutti tastare il polso debole della televisione italiana quando al Maurizio Costanzo Show siamo passati da Carmelo Bene a Pietro Tarricone contro tutti; da quando abbiamo iniziato a simulare un certo comportamento dentro la nostra stessa vita pensando di essere ripresi 24/7 come spiegava, magistralmente, Matteo Garrone in quel film ancora incompreso che è Reality. Quando i cellulari sono diventati smartphone e abbiamo iniziato con le chat roulette, le videochiamate, i selfie, i live streaming da YouTube a TikTok, ci siamo dimenticati di essere ripresi continuamente, abbiamo incorporato nel nostro paesaggio quotidiano esistenziale le videocamere e abbiamo, semplicemente, ricominciato a fare schifo -ed è l’unica cosa che sappiamo fare-. E, buona parte dei concorrenti scelti da autori e agenti amici di, in questi anni di Grande fratello di razza mista, ha fatto davvero schifo. Sia ben chiaro, io adoro gli stronzi rispetto al buonismo d’accatto degli attivisti/influencer da social, a patto che la mer*a venga incanalata in qualcosa di più grande o che valga per ogni partecipante la regola: liberi tutti, senza figli e figliastri coperti dal montaggio e scoperti dai canali social come Grandesorella (puntualmente segnalati).
Diciamolo, il Grande Fratello Vnip è diventato il buen retiro di ex matrone dello spettacolo, personaggi che varcata la soglia della porta rossa diventano a turno (penso a Katia Ricciarelli come a una Rosanna Fratello passando per Wilma Goich) la signora Castelli, Maggi e Vaccari di Salò; oppure, ancora, il trampolino di lancio di quelle che fino agli anni ’90 sarebbero state, al massimo, delle letterine (possono diventarle dopo, tanto per farvi capire quanto sta in basso questo programma nella catena alimentare televisiva). Eppure, ieri, Alfonso Signorini (neanche in un momento di lutto dimentica di farsi autopromozione) pubblicando un post con la copertina di Natale di Chi con tutti i partecipanti rimasti in gara, esprime il suo completo disappunto per la mancanza di empatia dimostrata da parte degli inquilini nei confronti della morte del padre di Beatrice Luzzi, fino a ieri la favorita alla vittoria. Empatia che sia Alfie come per gli autori, e chi sta molto spesso dietro agli stessi, non è una condizione né necessaria né sufficiente per partecipare al reality, se non nelle vesti di agnello sacrificale dell’edizione in corso. Sia ben chiaro: nessuno ha costretto (gli accordi legali lasciamoli a chi di dovere) Beatrice Luzzi a quella che, agli occhi di tutti, è stata una prevaricazione continua da parte dei coinquilini da una parte e autori dall’altra, ma allo stesso modo nessuno obbliga Alfonso a perdere gli ultimi stralci di dignità professionale, pensando di fermare il vento con le mani, con un post che è il corrispettivo del maglioncino grigio triste di Chiara Ferragni. Delle volte con dei colleghi ci chiediamo quali pietre miliari della cultura -in particolar modo del cinema- nel XXI secolo, non potrebbero più venire alla luce. Penso spesso a un film come Salò o le 120 giornate di Sodoma, usciva quasi mezzo secolo fa, eppure tra denunce e scandali fu realizzato, distribuito e visto. Oggi un lavoro come quello di Pier Paolo Pasolini e tanti registi coevi non potrebbero esistere, ma il Grande Fratello, a quanto pare, sì. Un po’ come racconta Carlo Verdone sul suo sito, di quella chiacchierata con Alberto Sordi sul declino della commedia all’italiana: “Oggi far ridere è veramente un’impresa. E lo sai perché? Perché non c’è più il senso del ridicolo. Guardati attorno... So’ tutti mostri! Ma chi ce fa più caso”.