Il seme del fico sacro di Mohammad Rasolouf è il titolo del film candidato agli Oscar nella sezione Miglior Film Internazionale. Un’opera girata clandestinamente in Iran, poi premiata a Cannes con il riconoscimento speciale della Giuria, che ha richiesto coraggio, sacrificio, paura. Tanta paura, la stessa che ha provato la nostra connazionale Cecilia Sala per ben tre settimane quando, incarcerata in uno dei luoghi più angusti e temuti al mondo, si trovavava a contare le dita delle sue mani, a dare sfogo, nel silenzio più doloroso, ai suoi mille pensieri in cerca di immagini. Questo posto è il carcere di Evin a Teheran. Un luogo in cui regna l'angoscia e quella sensazione tremenda di non sapere, e forse neanche di sperare più, un giorno, di uscire e tornare a guardare il cielo. È questo il mix di sentimenti che deve aver vissuto anche Mohammad Rasoulof. È questo il micromondo che ha disseminato nel suo film candidato agli Oscar. Come riporta Hollywood Reporter, il regista aveva condiviso pochi giorni fa un pensiero sull’esperienza della giornalista di Chora Media, durante la conferenza stampa italiana di Il seme del fico sacro: “Ho trascorso due periodi nel carcere di Evin, e posso immaginare quale esperienza sia stata per lei, tanto più per un europeo. Io sono cresciuto in Iran, sono preparato a certe difficoltà. Chi non è iraniano non può esserlo”. Del resto, anche nel suo film sono state immortalate delle manifestazioni fatte con il telefonino, veri documenti di quello che è successo in Iran. Tutto tramite un cellulare, perché, come ha ricordato il regista, fare il giornalista lì è quasi impossibile: “Non è permesso ai giornalisti di documentare le proteste. Sono gli stessi manifestanti che, con i video girati dai loro telefonini, mantengono viva l’informazione, che divengono essi stessi giornalisti. Ero in carcere quando è divampato il movimento ‘Donne, vita, libertà’, e non ho avuto la possibilità di filmare in prima persona. Quando sono uscito, mi sono fiondato a vedere tutti i video che ho potuto recuperare”.
Del resto, i rapporti tra Rasoulof e il suo Paese sono stati spesso estremamente difficili. I problemi non riguarderebbero solo il suo ultimo film scelto dall'Academy: sembrerebbe che il regista, nel corso degli anni, sia stato arrestato più volte. La colpa? Sarebbe da ricercare nei suoi film. Ecco che poco tempo prima della selezione del suo Il sacrificio del cervo sacro a Cannes, tutto si è ripetuto. Ancora. Mohammad Rasoulof è stato condannato a otto anni (5 di carcerazione), alla fustigazione e persino, come riporta Cinecittà News, alla confisca dei suoi beni. E le sue stesse opere giudicate come “esempi di collusione con l’intenzione di commettere un crimine contro la sicurezza del paese”. Dopo aver attraversato il confine a piedi e superato un percorso tanto duro quanto surreale, quasi fosse uscito da una storia incredibile, che poi, forse, è già la sua stessa vita, senza passaporto, che gli sarebbe stato tolto anni fa, è riuscito a raggiungere la Germania, come in un sogno che diventa vero. E poi Cannes, il red carpet con in pugno le foto dei due protagonisti che non hanno potuto lasciare l'Iran. Presto, Los Angeles. Sempre su Hollywood Reporter, il regista: “Ci sono ancora molte storie da raccontare, sugli ultimi 46 anni dell’Iran – ha detto – Anni pieni di vicende difficili e tragiche. Per esempio, durante i primi decenni della Repubblica islamica sono state giustiziate migliaia di persone. E finora nessun regista iraniano è riuscito a farci un film”. Pensando a sè, agli esuli, a chi una terra ce l'ha ma forse non gli appartiene più o non la riconosce, Rasolouf ha aggiunto: “C’è una grande generazione, anzi ci sono più generazioni di artisti iraniani in esilio: la mia è una condizione che mi accomuna a molti altri. Ma adesso, che è tutto così connesso anche grazie ai social, ciò mi dà speranza che sia possibile raccontare storie che abbiano un legame sia con la gente in Iran che con il pubblico globale”.