L’altra sera sono andato alla presentazione della ristampa in vinile, finalmente rimasterizzato nientemeno che da Fofo Bianchi, di Petra Lavica, album d’esordio di Pippo Kaballà. Un lavoro uscito trentatré anni fa, grazie alle intuizioni di Gianni De Bernardinis e di Massimo Bubola, che ci hanno regalato non solo una delle prime esperienze italiane nel campo della world music (Crueza de ma di Fabrizio De André, credo, faccia storia a parte), ma anche un artista, Kaballà, che è a sua volta un’eccellenza italiana, autore di oltre quattrocento canzoni, alcune divenute hit internazionali per voce di Eros Ramazzotti e Andrea Bocelli, altri gioielli conosciuti solo in patria, ma comunque di altissimo livello, per voce di Antonella Ruggiero, Mario Venuti, Anna Oxa e tanti altri. Una presentazione che è stata fatta in un bistrò in zona Conciliazione, a Milano, il Cascina Sant’Alberto, pieno fino a ogni ordine di posti. Pieno di amici, di Kaballà e anche miei, come di volti storici della nostra discografia, a partire da quello Stefano Senardi, discografico trentatré anni fa del disco in questione, chiamato con Alex Peroni a moderare l’incontro, passando per Claudio Guidetti, produttore dei successivi due album di Kaballà, chissà se anche quelli seguiranno a ruota il destino di Petra Lavica, Tino Silvestri, e anche una serie di artisti siciliani come Pippo, dalla giovane e talentuosissima Anna Castiglia a Giovanni Caccamo, passando per Ivan Segreto e Brando, che però rientra forse più nella categoria amici di vecchia gloria, ormai da tempo passato dall’altra parte della staccionata, cioè alle produzioni più che al canto. Petra Lavica è un pilastro della nostra musica affatto leggera, e ora non ci sono più scuse, va assolutamente ascoltato da tutti, specie chi non lo conosce, ma non è di questo che voglio parlare. Sembrava strano, immagino, parlo a chi è uso leggermi, che io avessi subito iniziato con l’argomento centrale, senza arrivarci dopo giri lunghi e divaganti, e invece era una falsa partenza, un voler comunque sottolineare l’importanza di un lavoro antico e modernissimo, e al tempo stesso del suo autore, un amico fraterno, per me, mica per caso, ma un passare poi oltre, perché le recensioni, nel 2024, le lascio a chi si alambicca nel definirsi critico musicale ad minchiam, come se parlare di canoni o di metriche avesse ancora un senso. Quello di cui voglio parlare è quello che è successo mentre me ne andavo, diretto verso casa quando l’incontro era ormai giunto al finale, la semifinale di X Factor e le relative pagelle da scrivere con mia figlia Lucia ad attendermi. Ecco, pensatemi mentre sto alla presentazione di un capolavoro come Petra Lavica, circondato da vecchi amici e me ne devo andare perché c’è X Factor, pensatemi che saluto da lontano Pippo Kaballà per andare a sentir parlare Achille Lauro, questo manto di malinconia è fondamentale per arrivare al passo successivo. Saluto chi riesco a salutare, mi copro per affrontare l’umidità novembrina di Milano e arrivo fuori dal locale, dove ci sono Brando e Claudio Guidetti, per intendersi quello che ha scritto Più bella cosa di Eros, oltre che prodotto e scritto un fottio di altre canzoni piuttosto note, stanno chiacchierando fuori, e mi fermo fugacemente a farci due chiacchiere. Non ci si vede da troppo tempo, ma ho appunto X Factor che mi aspetta. Entrambi mi chiedono, sorridendo sotto baffi che non hanno, io sì, “Non è il caso di tornare a bastonare?”. È una domanda che mi viene posta spesso, questa, magari non esattamente con queste precise parole, ma quello è il senso.
Spesso mi si chiede come mai io mi sia ammorbidito, o addirittura mi si rinfaccia l’essere diventato troppo buono. Qualcuno, più distratto, ma comunque informato di qualcosa che evidentemente a me sfugge, mi chiede: “Ma chi è l’ultimo che hai fatto incazzare?”, come se questo fosse la mia cifra, o magari il mio hobby. Sono considerato uno che bastona il sistema, o chi del sistema è punta di diamante. Lo sono sia per chi mi stima, e vede in questo mio ostinarmi a bastonare chi evidentemente è più grosso di me un merito, sia per chi pensa che la mia sia una posa, un modo per attirare attenzione. So per certo, perché me lo hanno detto in faccia, che per chi invece che bastonare il sistema del sistema ha deciso di essere portavoce, spesso a quattro zampe, io sarei uno che ha scelto questa scorciatoia, come se fosse più facile vivere isolato, spesso nell’ostilità, ma non è neanche di questo che voglio parlare, figuriamoci se voglio vestire i panni di quello che si lamenta o, peggio, vuol fare vanto del proprio essere se stesso. Mi interessa questa cosa che, col tempo, la percezione di me, per alcuni, è cambiata. E non ne sto certo scrivendo perché ritenga di essere centrale in qualche modo per chi legge, non è esattamente di me che sto parlando, ma appunto del sistema, portate pazienza e ci arrivo. Passare per uno che, invecchiando, e in fondo sono invecchiato anche io, nonostante il look casuale e gli occhialoni rosa, si è fatto sentimentale ci sta. È uno stereotipo, certo, ma a volte va bene anche incarnare uno stereotipo. Così come prima passavo per uno che distruggeva e basta, pur passando in realtà io il più del mio tempo a scrivere di artisti, spesso indipendenti, di cui vorrei tanto si parlasse, carta canta, ora passo per uno che non bastona più, nonostante ci siano ancora stuoli di fan che mi accusano esattamente del contrario. Fugando il dubbio che mi interesse dar seguito a quello che pensano i fan, e forse anche quello che pensano in generale i lettori, chi scrive pratica un mestiere intransitivo, dove il vettore ha una sola direzione, io scrivo e voi leggete, non viceversa, e so che dire questo mi renderà estremamente antipatico ai vostri occhi, amen, peggio che ti peggio, mi preme invece raccontare come quello che io faccio e continuo in realtà a fare, nel tempo, non sia tanto cambiato, quanto piuttosto è cambiato quel che mi succede intorno, al punto da cambiare, anche per amici di vecchia data, la percezione di me.
Il sistema musicale, che è quello nel quale opero ormai da un numero troppo alto di anni per essere indicato con una cifra, segue pedissequamente la metamorfosi generale della nostra società, e fin qui niente di così sorprendente. Così come tutto si è fatto frammentario e distratto, il passaggio dalla televisione, le radio e i giornali ai social, oggi principale mezzo di comunicazione, ha spinto per una accelerazione non esattamente edificante, l’attenzione si è fatta sempre più fragile, quando ho ripreso a scrivere per quella che un tempo era la carta stampata, oggi il web, oltre dieci anni fa, c’era l’attenzione media di chi legge articoli attestata intorno ai trenta secondi, oggi è scesa sotto i diciotto secondi, forse neanche il tempo di leggere titolo e occhiello (i miei pezzi sono così lunghi per cui la media di lettura dei miei pezzi è in genere sopra i cinque, a volte anche i sei minuti, e anche io contribuisco nel mio piccolo a formare quella media agghiacciante, figuratevi). In questa accelerazione verso la distrazione e la frammentazione, quindi potrei anche attestare verso una forma neanche troppo sottotraccia di analfabetizzazione, ci siamo ovviamente impoveriti tutti, perché non tanto il mare di input che riceviamo quanto piuttosto la velocità con cui gli input, appena accennati, ci arrivano addosso ci impedisce ogni approfondimento, e quindi ogni comprensione, fanno di noi, oggi, persone decisamente meno consapevoli, questo nonostante la pia illusione che, grazie proprio ai social e a internet, oggi l’informazione sia più libera e avvolgente. Parlando di musica, questo si traduce, come in ogni campo culturale, con un graduale abbassamento del livello delle produzioni, e anche con il conseguente graduale abbassamento del gusto generale, un po’ come se, a furia di nutrirsi di junk food, provare ad assaggiare un piatto con ingredienti naturali, dai sapori forti, sia diventato impossibile, a tratti quasi urticante (il tutto fatto passare ovviamente come inutile). Abbiamo del resto, sono dati acclarati, un vocabolario sempre più povero, parlo di quello che usiamo tutti i giorni come quello che poi finisce dentro le canzoni, o dentro i libri, con poche parole si possono fare pensieri decisamente meno articolati, poco importa che questo sia o meno parte di un discorso più ampio che vuole che noi, dove per noi intendo il popolo, si sia sempre più incapaci di reagire a scelte che ci piovono dall’alto, lungi da me passare per complottista, qui e ora. Nei fatti siamo più analfabeti, e siamo più poveri. E stiamo zitti. Ci facciamo andar bene tutto, nella vita di tutti i giorni, dico. E ci facciamo andar bene tutto anche nella fruizione della musica. Qualità sempre più bassa, musica gratis che deve fungere da sottofondo e come sottofondo viene concepita, delegando a un algoritmo il compito di scegliere per noi, il tutto nell’illusione di essere padroni del nostro destino. Figuriamoci, ci sta bene che il costo della vita sia salito vertiginosamente senza che i salari lo abbiano seguito a ruota, ci sta bene che non si faccia altro che chiacchierare riguardo i diritti sociali come civili, che si finanzino guerre, che si faccia green e pink e rainbow washing, continuando a perpetrare vecchie e orribili abitudini, che sarà mai se abbiamo lasciato che sia Spotify a scegliere la musica che gira intorno?
Dico questo, mentre sto andando a casa dalla presentazione di Petra Lavica di Pippo Kaballà per andare a vedere la semifinale di X Factor che vedrà tre mediocri progetti come quelli della squadra di Achille Lauro andare in finale, con il ballottaggio delle sole due realtà di rilievo, la cantautrice Francamente, eliminata dal Tilt, contro Mimì, diciassettenne cantante dalla voce decisamente strepitosa, ennesimo caso di come il popolo, da casa, segua i capipopolo più che un gusto che evidentemente a furia di mangiare con le orecchie junk food si è fatto privo di capacità cognitive, e lo dico dopo che mi è stato chiesto quando tornerò a bastonare, sottintendendo che io mi sia in qualche modo rammollito, sia diventato di colpo buono, o forse addirittura rassegnato a un sistema più grosso e forte di me. Ecco, le cose non credo stiano esattamente così. Certo, ho passato anni decisamente più movimentati di questi, a affondare le parole dentro sistemi discutibili, penso alle inchieste sui conflitti di interesse al Festival di Sanremo, quelle sui finti sold-out, alle connessioni non proprio limpidissime tra edizioni e radio, così come alle polemiche social con artisti mainstream di un certo rilievo, artisti che oggi sono ormai diventati marginali, guardando al mercato, sostituiti da ragazzini che spesso sono del tutto disinteressati a quel che succede sui media tradizionali, quindi perché mai dovrebbero prendersi la briga di scatenarmi contro i propri fan. Io continuo la mia opera di abbattimento di ecomostri, vedo così la critica che per taluni e inutilmente distruttiva, e lo faccio per due specifici motivi. Primo, gli ecomostri vanno abbattuti perché contaminano il paesaggio, rovinano la bellezza, e sono oggettivamente brutti. Secondo, abbattendo ecomostri si fa rumore e si alza la polvere delle macerie, e quel rumore attira sì attenzioni, che poi rivolgo verso paesaggi decisamente più interessanti, meritevoli di essere guardati, ascoltati nello specifico. Paesaggi che se non abbattessi di tanto in tanto ecomostri non avrei abbastanza attenzione per poter mettere in rilievo, sono sì invecchiato e forse mi sono fatto sentimentale, ma ho ben presente come funzioni il mondo della comunicazione, so che fa più clamore l’albero che cade che l’albero che cresce, quindi abbatto alberi marci per poi fare spazio a alberi vivi e belli. Solo che spesso mi ritrovo a farlo da solo, e questa cosa sì che mi immalinconisce. Perché i messaggi e le pacche sulle spalle di stima e solidarietà avvengono sempre in via privata, e il sentirmi dire “bravo, dici cose che tutti sappiamo e che nessuno aveva il coraggio di dire” è incoraggiante, certo, ma anche sintomo del fatto che a nessun altro o quasi interessa fare quello sporco lavoro. Non tanto perché le cose restano quasi sempre così come sono, quanto piuttosto perché fa più comodo mandare avanti qualcun altro, me nello specifico. Quindi, ormai sono a casa e mi sono fermato per scrivere le pagelle di X Factor, e vengo al punto, non è vero che non bastono più, come un vecchio ninja ancora vestito di nero ho affinato negli anni più tecnica, quindi lo faccio colpendo direttamente i centri vitali, o così mi piace pensare. Colpisco di meno, ma colpisco comunque forte, dando più spazio a chi invece negli spazi lasciati liberi dagli ecomostri io ritengo dovrebbe aver modo di costruire la propria palazzina. Con tutta la fatica del caso, pensate proprio all’eliminazione di Francamente nell’alveo del talent di casa Sky. Sono anni che sbraito su quanto le donne siano discriminate nel mondo della musica, un misero 14% nel mercato, ma anche tra gli addetti ai lavori. Lo faccio denunciando come e quando posso la cosa. Lo faccio dando spazio ad artiste, spesso giovani e indipendenti, quindi ancora del tutto fuori anche solo dall’ipotesi di entrare nel mercato. Lo faccio organizzando eventi, scrivendo libri, articoli, facendo speech pubblici. Mi spendo e mi sbatto, sentendomi spesso dire che tendo così a creare ghetti, anche da parte di cantautrici, che il cantautorato femminile non esiste, mi sento rinfacciare da uomini la mia presunta disattenzione nei loro confronti. Poi Achille Lauro, a furia di leccare il culo al pubblico col suo “senato” e coi suoi “signori miei”, porta in finale personaggi privi di talento, e al ballottaggio ci vanno le sole due artiste rimaste in gara di talento, incidentalmente due donne, lasciando quindi il popolo bue a casa la più talentuosa della covata, il tutto dopo che già i giudici avevano tirato in mezzo Paola Iezzi, la sola donna a sedere tra loro. Come dire: mi cascano i coglioni, tanto per usare un modo di dire decisamente poco femminile. Come mi cascano i coglioni a dover star lì anche solo a parlarne, perché io Francamente la conoscevo già prima, parte di quel bellissimo progetto che si chiama Canta fino a dieci, e che vede cinque splendide cantautrici collaborare e farsi forza assieme, con lei anche Anna Castiglia, che già l’anno scorso aveva fatto i conti con la miopia di X Factor salvo poi fare il botto fuori di lì (sorte che sta capitando quest’anno a Giulia Mei), e poi Irene Buselli, Rossana De Pace e Cheriach Re, e come me avreste dovuta conoscerla tutti, perché i talenti dovrebbero essere sotto gli occhi di tutti, senza doversi mettere a disposizione di format che poi premiano la paraculaggine e non a caso non producono risultati ormai da anni e anni. Mi immalinconisce pensare di essere in qualche modo parte di questo circo, con le pagelle che da dieci anni scrivo con mia figlia Lucia, pur consapevole che essere quello che a corte dice che il re è nudo non è esattamente essere a corte e fare la cortigiana, e in re è in effetti nudo, e ha pure il cazzo piccolo.
Quindi no, non è vero, non mi sono fatto troppo sentimentale, ho solo cambiato modalità. Prima usavo il bazooka, oggi come il maestro di Po, protagonista di Kung Fu Panda, provo a uccidere toccando un punto specifico sul collo. E al contempo mi godo la bellezza laddove c’è, andatevi a sentire Petra Lavica di Pippo Kaballà, ancora pulsante trentatré anni dopo la sua pubblicazione, e andatevi ad ascoltare le cinque cantautrici di Canta fino a dieci, Francamente, appena eliminata scandalosamente da X Factor (vinceranno i Patagarri, scelti nel mazzo dai poco avveduti omini della Warner), Irene Buselli, Cheriach Re, Rossana Di Pace e Anna Castiglia. Alla fine vincono sempre i buoni, ci hanno insegnato da bambini, quando ci raccontavano le favole, magari è la volta buona che a svegliarci dal sonno sia la principessa invece che il principe.