Andrea Cuomo è un critico gastronomico. Un vero critico gastronomico, non uno qualunque. Visita circa 250 ristoranti all'anno, perché la sua è una passione, ma anche un lavoro serio. La cucina intesa come arte, ricerca e profonda conoscenza. Per lui, ogni piatto è un viaggio che va oltre il semplice gusto: è un'esperienza sensoriale e intellettuale. Da anni combatte contro un pubblico che, purtroppo non capisce la vera essenza del fine dining. La sua battaglia è contro chi ancora non riconosce che la trattoria e il ristorante di lusso possano coesistere, e che chi mangia nei ristoranti di alta qualità sa bene che dietro ogni piatto c’è un lavoro meticoloso di ricerca, selezione e innovazione. Ma, naturalmente, chi non è mai entrato in certi locali non può capire e continua a pensare che la pasta in bianco sia quella che la mamma ti fa quando hai la febbre alta. In questa intervista, Andrea Cuomo non si è limitato a fare un quadro della cucina italiana, ma ha lanciato vere e proprie stoccate. Ha parlato dei food influencer, di come la televisione abbia cambiato la percezione della gastronomia, di Davide Lacerenza e la Gintoneria, e ci ha svelato i nomi degli chef che, a suo parere, stanno veramente facendo la differenza.

Ultima Generazione ha organizzato un presidio davanti al ristorante di Cracco. Secondo lei, così facendo, riescono davvero a trasmettere un messaggio?
È un messaggio che, secondo me, funziona nei confronti di chi non conosce il mondo della ristorazione, di chi ha un approccio - lo definirei populista - nei confronti dell’alta ristorazione e di quello che si chiama fine dining. Il mio pensiero è questo: esiste un’anomalia nella cucina. La cucina è un mondo in cui il lusso non viene percepito come moralmente accettabile, contrariamente a tutti gli altri settori del lusso. Nel mondo degli orologi, per esempio, è considerato perfettamente legittimo che esista il Casio di plastica da 29 euro e il Rolex da decine di migliaia di euro. Nessuno trova questo scandaloso: ognuno acquista l’orologio che può permettersi o che desidera. Lo stesso vale per le automobili: anzi, l’appassionato considera un sogno avere una Lamborghini, una Ferrari, una Maserati. Se una volta nella vita ha la possibilità di farci un giro, lo considera un’esperienza da raccontare ai nipoti. Lo stesso discorso vale per l’alta moda: non è considerato sbagliato che esistano brand italiani o francesi con capi che costano migliaia di euro, rispetto al fast fashion dove una maglietta costa 20 euro. È considerata normale l’esistenza di un’offerta stratificata, che va dai prodotti popolari a quelli di lusso.
Molto spesso l’alta ristorazione ha difficoltà a comunicare il proprio valore. Questo divario non viene accettato?
No. Il ristorante che propone menù da 300 euro o più viene considerato moralmente sbagliato, perché il cibo è visto come qualcosa di popolare e accessibile a tutti. Inoltre, tutti noi ci sentiamo esperti di cibo: è un argomento quotidiano e pensiamo sempre che la nostra nonna faccia gli agnolotti migliori del mondo o la migliore parmigiana di melanzane. Per questo, riteniamo di avere il diritto di criticare Cracco o qualsiasi altro chef stellato, perché pensiamo che un piatto di spaghetti cucinato da nostra zia valga più di uno servito in un ristorante di alta cucina. Ignoriamo, però, il valore culturale, la ricerca, l’innovazione e la rappresentanza del Made in Italy che l’alta ristorazione porta avanti, creando anche posti di lavoro e fungendo da traino per il settore agroalimentare. Io considero l’alta cucina come la Formula 1 nel mondo delle automobili: sviluppa tecniche, soluzioni e innovazioni che, col tempo, vengono adottate anche nella ristorazione più commerciale. In F1, si creano tecnologie per migliorare velocità e sicurezza, che poi vengono implementate nelle auto di tutti i giorni. Allo stesso modo, l’alta cucina sperimenta nuove tecniche e soluzioni, anche in termini di sostenibilità, che poi, negli anni, influenzano il settore più ampio della ristorazione. Il grande pubblico, però, non riesce a vedere questa dinamica, e quindi certi messaggi populisti, come la protesta contro Cracco, purtroppo funzionano. Andare davanti al suo ristorante per accusarlo di avere prezzi troppo alti è un messaggio che colpisce, ma è fuorviante. Non tutto deve essere popolare per forza.
Infatti, hanno chiesto a Cracco di offrire un pasto gratuito ogni giovedì ai meno abbienti. Ma davvero deve essere uno chef stellato a fare la differenza? Non dovrebbero prendersela con politici e istituzioni?
Io non coinvolgerei la politica in questo discorso, perché mi occupo di cucina e non voglio fare populismo a mia volta. Per esempio, a Milano - la città dove vivo e lavoro - il problema degli ultimi anni non è stato Cracco con la sua pizza da 40 euro o con i suoi menù da 200 euro. E quando dico Cracco, potrei dire anche Bartolini, Antonio Guida o qualsiasi altro chef di alto livello. Questi ristoranti si rivolgono a un pubblico ben preciso, non al pensionato che fatica ad arrivare a fine mese. Il vero problema è stato l’aumento generalizzato dei prezzi in tutta la ristorazione, comprese le pizzerie più umili. In dieci anni, i prezzi sono almeno raddoppiati, a causa di aumenti del costo dell’energia, del lavoro e delle materie prime, ma anche di una certa speculazione da parte di alcuni ristoratori. Non farei quindi un discorso politico. La politica incide solo fino a un certo punto sul costo del cibo. E di certo non è Cracco a dover sfamare chi non arriva a fine mese.
Paolo Marchi ci ha detto: "Si può andare in macchina anche senza avere una Ferrari", ovvero che non è necessario andare in un ristorante di alta cucina se non si può permetterlo. Bisognerebbe accettare che alcuni ristoranti siano più costosi di altri. È d’accordo?
Assolutamente. Questo vale per tutti i settori: esistono diversi livelli di spesa e prodotti più o meno accessibili. Non tutto deve essere alla portata di tutti, ma non per una questione di classismo. Semplicemente, è sempre stato così. Se non posso permettermi una Lamborghini, non vado a protestare davanti alla fabbrica per chiedere che la vendano a 20.000 euro. Non ha senso.
Lei giustifica i prezzi molto alti di Iginio Massari?
Lo stesso vale per la polemica sul costo delle chiacchiere o delle uova di Pasqua di Iginio Massari. Chi vuole delle chiacchiere o delle uova di Pasqua ha molte alternative. Può acquistarle in pasticceria, al supermercato o da Massari, pagando di più per il marchio e la qualità. È una scelta. Il problema dell’alta cucina e la percezione del pubblico. Magari chi non si interessa di alta cucina non riesce neanche a percepirne il valore. Conosco persone che, indipendentemente dal costo, preferirebbero comunque una pizzeria sotto casa piuttosto che un ristorante stellato. Non si sentirebbero a loro agio in un ambiente così formale. L’alta cucina è vista come esclusiva, anche per il modo in cui si svolge il servizio. Dalle spiegazioni dettagliate dei piatti, che molti non vogliono ascoltare, fino alla selezione dei vini, che può mettere in soggezione chi non è esperto. Alla fine, chi frequenta certi ristoranti appartiene a una nicchia. Molte persone, pur potendoselo permettere, non sono interessate. E chi ci va per curiosità, a volte, rimane deluso.
Ogni tanto vedo gente che si lamenta sui social postando foto di scontrini… ma possibile che prima di sedersi non abbiano controllato i prezzi?
I menù, anche nei ristoranti stellati, sono esposti all’ingresso per legge. Chiunque può leggerli. Non ha senso stupirsi dopo. Le polemiche più forti, poi, si scatenano sempre sui piatti "popolari": la pizza di Cracco, la pasta in bianco di Alberto Quadrio. Ma si ignora il lavoro e la ricerca che ci sono dietro.
Perché poi la gente non sa che quella pasta in bianco viene fatta con delle procedure che la rendono un piatto di altissimo livello. Ci sono tecniche, tempi, ricerche sui materiali che portano via molto tempo. Noi la paragoniamo a quella che ci veniva data da nostra madre quando avevamo magari mal di pancia, quindi pensiamo che sia impossibile che costi quella cifra lì. Ma ovviamente non si tratta di una pasta commerciale con un po' di burro comprato al supermercato, si tratta di tutt'altro. Io ormai mi sono quasi stancato di spiegare ai miei amici e ai miei colleghi il valore di certe cose, perché non c'è voglia da parte del pubblico di comprendere veramente che cosa sia l'alta cucina e che valore abbia anche a livello culturale di rappresentanza del nostro paese.

A Milano, dopo l’arresto di Davide Lacerenza e Stefania Nobile, ci si chiede anche quanti altri locali, oltre allo champagne, i cocktail o il vino, favoriscano la prostituzione o l’uso di stupefacenti. Secondo lei il fenomeno è molto diffuso o isolato?
Io mi occupo di gastronomia, la Gintoneria non ha nulla a che vedere con il mondo della gastronomia, almeno non come lo intendo io. Lì si tratta più di un locale notturno. Posso immaginare che ci siano altri locali del genere, nessuno con un giro d'affari come quello della Gintoneria, almeno questo lo dico da quello che ho letto. Però ripeto, non ha molto a che vedere con il mondo della gastronomia. La gente che frequentava la Gintoneria probabilmente non aveva una grande idea di come debba essere un'esperienza di un certo livello. L'alta ristorazione è un'esperienza piacevole, interessante, colta, non è fatta soltanto di champagne sbocciati alle due di notte, badando più al prestigio dell'etichetta che non alla qualità di quello che c'è dentro. E non è fatta soltanto di crudi di pesce fatti pagare centinaia di euro per ogni piatto. Immagino comunque che questo fenomeno esista in tutte le città perché esiste un pubblico che vuole fare quel tipo di esperienza e che secondo me non andrebbe mai in un ristorante stellato.
Alcuni, al di là dell’inchiesta, dicono che Davide Lacerenza fosse un ottimo ristoratore e conoscitore di champagne. Lei era mai stato alla Gintoneria o a La Malmaison?
Davide Lacerenza l'ho conosciuto una sola volta, era una persona indubbiamente molto simpatica e che poteva piacere a un certo tipo di persone. No, non era un ottimo ristoratore, non per come intendo io la ristorazione. Era un padrone di casa che attirava il pubblico con offerte che poco hanno a che vedere con la ristorazione e che poteva piacere ovviamente, come ho detto prima, a un certo pubblico, ed era probabilmente anche una persona che faceva sentire a suo agio proteggendo la privacy e garantendo, come abbiamo letto, servizi diversi da quelli propri di un ristorante. Io sì, ci sono stato una volta, ero stato portato da un'amica per il compleanno di un collega giornalista. Era una festa privata, nel 2016. La situazione era abbastanza simile a quella che è stata raccontata nei resoconti giornalistici, cioè c'era lui con il suo sorriso smagliante che sbocciava champagne molto costosi a tutto spiano, li serviva a chiunque passasse di lì. Ogni tanto Wanna Marchi, all'epoca in cucina, usciva con piatti di polpette e di altre cose e li serviva. La gente cantava, ballava, c'era un clima estremamente divertente, ma tutto assomigliava più a una festa in realtà che a una cena. È vero che a cena bisogna divertirsi, ma quella non era una cena, ma era una serata da locale notturno.
Chi sono i suoi tre chef italiani preferiti?
Che domanda difficile! Ne ho tantissimi. Io interpreto questo mestiere davvero all’antica: visito circa 250 ristoranti all’anno, quindi il numero di chef che conosco e che ammiro, anche per le loro qualità umane oltre che per la bravura in cucina, è enorme…Io faccio una premessa. Per me ha grande importanza non solo a come è cucinato un piatto, ma anche alla filosofia di cucina, all’onestà intellettuale di uno chef, al modo in cui tratta i propri dipendenti, al modo in cui organizza la sala e al modo in cui riesce a creare, o non creare, eventualmente, un clima di lavoro sano e non tossico. Se mi devo limitare a tre nomi, posso dire che in questo momento ho una grande passione per Niko Romito, che secondo me è il vero genio della cucina italiana. È anche un uomo che guarda lontano e che ha una passione per l’idea di industrializzare i processi dell’alta cucina, rendendola veramente democratica. Lui lavora in collaborazione con alcune aziende per portare nella ristorazione collettiva i canoni e i codici dell’alta cucina, il che sarebbe una vera rivoluzione. Se negli ospedali e nelle scuole si mangiasse meglio grazie ai processi sviluppati nel fine dining, sarebbe qualcosa di straordinario. Negli ultimi tempi mi sono appassionato molto al lavoro di Alberto Gipponi di Dina a Gussago, in provincia di Brescia. Non ha una stella e, secondo me, è assolutamente uno scandalo che non ce l’abbia. Lui ha dei suoi processi mentali, a volte un po’ contorti, a vari livelli di lettura, ma una cena da lui è veramente un’esperienza entusiasmante. Per dire tre nomi che appartengono a ambiti un po' diversi, sono anche un grandissimo appassionato di Diego Rossi di Trippa a Milano, che ha reinventato il concetto di trattoria contemporanea. È uno degli chef più imitati della scena gastronomica italiana, non ha mai avuto una stella, e se parlassimo della Michelin, potremmo aprire un file enorme. Ma la Michelin in Italia applica dei principi che secondo me sono sbagliati, non considerando le trattorie e le pizzerie degne di una stella.
Come funziona la Michelin in altri paesi?
A Singapore esiste un noodle bar in un mercato che ha una stella, e a Hong Kong esiste un locale che ha una stella dove sono stato, e ha un’estetica e anche un'igiene inferiore a quella di una rosticceria cinese della periferia milanese. Quindi, in alcuni paesi, luoghi che hanno degli standard di servizio di basso livello sono ritenuti degni di una stella, mentre in Italia le pizzerie di altissimo livello e le trattorie come quelle di Diego Rossi non lo sono. Ma io sono sicuro che lui se ne è fatto una ragione e resta comunque un uomo che ha cambiato veramente l’idea di trattoria e che ha trasformato la prenotazione di un tavolo nel suo locale in uno dei più grandi desideri del milanese medio. E quindi, già solo per questo, va apprezzato.

I food influencer, secondo lei, stanno rovinando il mondo del food o sono una nuova linfa del settore?
Inizialmente ho avuto un po' di diffidenza anch'io, in quanto critico gastronomico vecchio stile che lavora su media tradizionali. Ho avuto un po' di diffidenza nei confronti di questi personaggi e ne ho conosciuti di ogni genere. Effettivamente, ci sono persone totalmente impreparate o che fanno una comunicazione scandalistica, anche in qualche caso populista o che - e questo è un altro discorso - fanno delle aperte marchette. Però devo dire che poi, negli anni, ho conosciuto anche food influencer preparati, bravi, con un linguaggio adeguato. Certamente si muovono su un terreno che non è il mio, hanno un pubblico diverso dal mio, per cui non mi sento di giudicarli, non li trovo la rovina del mondo del food. Un food influencer, in fondo, fa il suo lavoro. Se qualche food influencer guadagna e si fa invitare nei posti o si fa dare dei soldi per pubblicare dei contenuti, è perché c'è qualcuno che questi soldi glieli dà.
Ci sono dei food influencer che apprezza?
Io ho conosciuto di recente un food influencer che si chiama Tasso Culinario, che trovo molto bravo. L'ho conosciuto anche personalmente, dialoghiamo alle volte, ci scambiamo impressioni, ciascuno con i propri linguaggi diversi, perché è una questione anche di linguaggio e, ovviamente, di pubblico. Il linguaggio è scelto in funzione del pubblico che si ha o che si pensa di avere. Io questo food blogger – o con questo content creator, come si dice ora – l'ho apprezzato. È molto più giovane di me, abbiamo avuto delle chiacchierate anche molto fertili, perché poi è bello, almeno dal mio punto di vista, confrontarmi con persone che hanno approcci diversi dal mio. Si impara molto di più a confrontarsi con persone diverse da se stessi, rispetto a confrontandosi sempre con i colleghi che io conosco da vent'anni, che fanno la stessa vita che faccio io e che hanno lo stesso approccio. Allo stesso modo, posso dire che ho conosciuto o avuto modo di vedere, anche su Instagram o su TikTok, dei video che io disapprovo. Ma è normale: c'è del bene e del male in tutto.
C'è qualcuno che non merita di essere seguito?
Certo che c'è. Non le farò i nomi, anche perché non me li ricordo, ma ci sono dei contenuti che sono assolutamente spazzatura. Però io penso sempre che, se c'è qualcuno che li segue e che non sa distinguere un contenuto di qualità da un contenuto di spazzatura, non si può rieducare il pubblico e non si può avere un approccio moralista. Se qualcuno ha il suo pubblico, vuol dire che questo è il mondo della gastronomia. Probabilmente, le stesse persone che non sono in grado di capire l'alta cucina o di farsi incuriosire e che vivono di pregiudizi saranno il pubblico di questi content creator di bassa qualità. Io penso che ci sia libertà per tutti e che, poi, alla fine è il mercato a decidere chi ha senso e chi non ha senso, non le mie eventuali prediche moraliste.
Secondo lei, i programmi come MasterChef hanno fatto bene o male alla cucina?
Complessivamente, io penso che abbiano fatto più bene che male. Hanno contribuito a far familiarizzare il grande pubblico con l'idea di alta cucina. Anzi, mi sorprende che non ci siano più persone con la curiosità e la voglia di andare a provare almeno una volta nella vita un ristorante stellato dopo aver visto quella trasmissione. Detto questo, MasterChef negli ultimi anni si è trasformato in una sorta di reality che punta molto sull'umanità dei personaggi e molto meno sulla tecnica in cucina. Ma questo non necessariamente è un male. Lo guardo anch'io e mi accorgo che a volte mi appassiona più seguire le dinamiche personali e le rivalità tra i concorrenti piuttosto che il modo in cui viene realizzato un piatto. Però ci sta: è televisione, e la televisione ha bisogno di quello.
Cosa ne pensa invece dell’intelligenza artificiale promossa da Cracco?
Questa è una domanda complessa. L’intelligenza artificiale può piacere o no, ma ormai fa parte delle nostre vite. Sarà compito di ognuno di noi, nel proprio ambito lavorativo, cercare di usarla nel modo migliore. È uno di quei cambiamenti che non si possono fermare. Nel mio settore ho fatto degli esperimenti: ho inserito dei comunicati stampa in ChatGpt chiedendo di renderli più leggibili e, devo dire, spesso il risultato prodotto dall'intelligenza artificiale era migliore di quello scritto da alcuni uffici stampa. Da questo punto di vista può essere uno strumento interessante. Non so dire con certezza quale sarà l'impatto dell'intelligenza artificiale in ogni settore, perché non sono un esperto né un appassionato, quindi mi manca una visione ampia di tutte le implicazioni. Ma come per ogni strumento, penso a Internet agli inizi: c'era chi lo vedeva come il diavolo, qualcosa che avrebbe stravolto e peggiorato la nostra vita, rendendola disumana. Invece, oggi Internet è diventato per noi qualcosa di quotidiano, come il caffè al mattino, e lo usiamo in mille modi diversi. Probabilmente succederà lo stesso con l’intelligenza artificiale. Certamente, però, serviranno delle regole, questo sì.
