Paolo Marchi conosce davvero la cucina italiana. L’ha raccontata, l’ha analizzata, l’ha difesa e qualche volta, quando è giusto farlo, l’ha anche biasimata. Critico gastronomico, fondatore di Identità Golose, inviato di Striscia la Notizia, ha dato spazio a una nuova generazione di cuochi quando ancora nessuno parlava di "fine dining" e ha visto il mondo della ristorazione cambiare sotto i propri occhi. Oggi, però, qualcosa non gli torna. Troppi cuochi inseguono le mode invece di avere ricercare una loro identità. E sulla pasticceria? Manca carattere, si punta più sull’estetica che al gusto. In questa intervista per MOW non fa sconti a nessuno: dal rapporto tra chef e social al futuro della cucina, fino ai rischi di un settore che, secondo lui, sta perdendo la famosa autenticità. E quando gli si chiede cosa lo entusiasmi ancora, la risposta arriva chiara: il talento vero, quello che non ha bisogno di effetti speciali per farsi notare.

Ultimamente nel mondo del food si è parlato moltissimo dei prezzi sui prodotti di Iginio Massari, dalle chiacchiere di Carnevale a 100 euro al chilo alle Uova di Pasqua a 105 euro. Secondo lei sono prezzi giusti per uno chef come lui?
La risposta è nella tua domanda. "Come lui". Certi personaggi diventano così. Al di là del merito contingente, ci saranno altri che fanno ottime chiacchiere e ottime uova di Pasqua, ma avere il nome Iginio Massari è un valore. Tu paghi anche il nome di quello che compri, e la bella figura che fai regalandole o portandole a casa. Come con i vestiti. Se vuoi vestirti da Armani o in un grande magazzino ovviamente costa di più o di meno. È inevitabile, anche perché è una libera scelta andare a comprare una cosa piuttosto che un'altra. Ma vale per l'automobile, vale per un albergo, vale per qualsiasi cosa tu decida di fare. C'è un ventaglio di prezzi. Dipende se te lo puoi permettere, però non è l'unica scelta.
Quando abbiamo intervistato sia chef Guido Mori che il critico gastronomico Valerio Visintin, e ci hanno detto che secondo loro il cibo ormai è diventato uno status sociale...
Questo di sicuro. La cosa fatta da un nome noto costa di più di quella di un posto qualsiasi, o comunque anonimo. Se hai una certa griffe, un certo occhiale con le iniziali dello stilista che li ha disegnati, un certo vestito, un'automobile…per dire, a me delle auto non frega niente, ho sempre avuto la Renault, adesso ho una Skoda, a me basta che funzioni e mi porti a destinazione. C'è, invece, chi vede nell'auto uno status symbol, che spende delle cifre che per me sono inimmaginabili, magari anche per un orologio. Io mi incazzo di più se ho bisogno di una prestazione medica e devo aspettare sei mesi o un anno. Se vai in una struttura pubblica aspetti mesi o addirittura anni. Se ti rivolgi al privato te la fanno subito e spendi migliaia di euro. Per me gli scandali sono questi. Secondo me lo scandalo è che i servizi che devono essere forniti dallo Stato a un prezzo giusto non ti vengono praticamente concessi, fanno di tutto per dirottarti sul privato e questo per me è inaccettabile. Si può andare in macchina senza avere la Ferrari, si può vestire senza le grandi firme della moda e così via.
Sicuramente l’uovo di Pasqua di Massari non è un bene di prima necessità. Ma vale davvero 105 euro?
Ormai paghi solo il nome, perché è passato molto tempo da quando quel certo nome si è affermato per la qualità e non fa più un lavoro artigianale. Paghi più il nome che la sostanza. Tu sei di Caserta, io di Caserta conosco poco, ma se vieni Milano quelli ti dicono “ah, il panettone di Marchesi”. Sì, saranno ottimi, però se tu mangi il panettone o la colomba di Andrea Tortora è dieci volte più buona. Non tutti la conoscono, però quel giovane pasticciere è il più bravo che ci sia. E così Iginio Massari. Poi sempre più persone comprano e lui ovviamente aumenta anche i prezzi. È una legge dell'economia. L'unica risposta se uno si indigna? Non comprarlo e cerca qualche altro prodotto altrettanto valido.
Ernst Knam, altro chef simbolo nella pasticceria, ha detto infatti che ognuno mette i prezzi che vuole e che quella di Massari è una mossa geniale di marketing. Troppo buono?
No, è così. Oggi ho visto una cretina, un’influencer che è sempre un po' tra OnlyFans e Food influencer. E questa si è fatta riprendere in un albergo sulla zona del Colosseo e diceva: “Ah ma che schifo”, poi anche ai Fori Imperiali, al circo Massimo… diceva “ah, che vergogna, buttano qua i mattoni vecchi”. Ovviamente erano reperti di Roma antica. Faceva scandalizzare. Questa cretina ogni tre mesi tira fuori qualche storia scandalosa. Ma dopo si parla di lei. Ed è quello che vuole ottenere.

I social stanno rovinando anche il mondo della cucina?
Sì, ma in tutti i settori. La cucina in particolare. Una volta in un ristorante di Milano, che adesso non c'è più, era degli anni Ottanta, ero andato a intervistare il proprietario, e dopo aver chiacchierato mi ha detto una cosa che ricorderò sempre: che i clienti sono dei volontari. Io gli ho chiesto: come sono dei volontari? E lui mi ha risposto: Sì, nessuno dice loro di venire a pranzo da te. Se vengono è perché ti danno fiducia per qualche motivo, esprimono una scelta, una volontà nei tuoi confronti e non devi deluderli. Questo è molto importante, ma vale anche se tu punti molto sul marketing. All’inizio uno rimane preso un po' all'amo, però dopo ciò che conta è se quello che tu paghi è anche buono. Altrimenti arrivi a casa, porti un certo dolce e ti dicono: “Ah che bello, Angela ha comprato il dolce”, poi lo mangiano e si guardano come se fossi stata fregata. Può essere un’arma a doppio taglio se all'operazione di pubblicità non corrisponde una vera qualità. Io te lo faccio pagare di più per il nome, ma te lo faccio pagare di più anche perché è più buono, perché è migliore. Secondo me la cosa più importante quando capisci che è solo un’operazione di marketing è ignorarli, o dai solo loro importanza.
Aldo Grasso, noto critico del Corriere della sera, ha parlato di “instagrammizzazione del cibo”. Ormai il prezzo dipende da quanto è bello più che da quanto è buono…
Assolutamente sì. Allora, io ho 70 anni, per cui scrivo da una vita. Una volta c'erano la Guida Michelin, Il Gambero Rosso e un po' di guide. Se volevi informarti dovevi comprare delle guide, dei quotidiani che potevano avere delle rubriche, ma erano sempre dei giornalisti o dei critici che si esprimevano, insomma gente di cultura e informazione. Poi qualcuno ti poteva piacere, qualcuno meno, dipendeva anche dalle persone, dal taglio che ogni giornalista o critico davano. Però c'era un'informazione che cadeva dall'alto, e tu la recepivi. Di sicuro con i social, con i blog, con le chat e così via, si è democratizzato tutto. Tutti possono parlare adesso. I cuochi hanno capito che se fanno dei piatti colorati e belli, vengono fotografati facilmente su Instagram. Anche una volta l'occhio voleva la sua parte, però contava molto il sapore, il gusto, che non puoi trasmettere con una foto. E questo piatto fa molti danni. Giudichi i piatti perché sono belli, mentre dovrebbero essere buoni, soprattutto buoni. E un’altra cosa è che i piatti vengono copiati tutti. È molto più difficile adesso valutare la qualità di un piatto rispetto a una volta. Una volta ho incontrato Gualtiero Marchesi e gli ho detto “Maestro, quel piatto è favoloso”. E lui mi ha risposto: “Ma lei lo ha capito? Io ho fatto il piatto in un certo modo, ha capito perché l'ho fatto in quel modo?”.

Per il critico Edoardo Raspelli le recensioni sui social non sono sincere e spesso sono positive solo perché gli influencer vengono pagati dai ristoratori o ricevono cene gratuite. È d'accordo?
Guarda, magari prima c'era un fenomeno molto ridotto e che adesso si è generalizzato, ma succedeva anche alle guide e ai giornalisti. Per me l'importante è avere un po' di sale in zucca per capire quando le cose sono autentiche o se c'è dietro qualche invito. Ovviamente non sempre è facile. Quando leggo qualche articolo dove c’è scritto “nella splendida cornice…”, o che il ristorante è curatissimo, i piatti sono abbondantissimi, buonissimi, insomma, tutti superlativi, capisco che sono cose fasulle, perché se uno va in un posto e non riesce ad avere un sentimento suo, non riesce a vivere una propria emozione, vuol dire proprio che è incapace e si è fatto influenzare, scrive quelle cose solo per ripagare un invito.
Secondo lei esistono degli influencer che portano un contributo serio alla divulgazione gastronomica?
Sì, quest'anno con l'uscita della nostra guida ne abbiamo premiati un paio, perché come in tutti i mestieri c'è chi fa le cose bene e chi le fa male. In questo mondo è molto facile fare cose banali e superficiali. Si tratta di non farsi influenzare dalla moda.

Anche dei talent si è parlato molto. Come MasterChef o altri programmi televisivi. Hanno fatto bene o male alla cucina?
Per me hanno fatto bene. Ti dico questo perché tre o quattro anni fa, dopo il Covid, il sabato aprivo il congresso Identità con una mattinata intera dedicata al cibo in televisione. Antonella Clerici alla Rai si impose facendo la presentatrice di un programma che durò due o tre anni di Gualtiero Marchesi, con un giovanissimo Davide Oldani. Preparavano le ricette mentre Gualtiero Marchesi parlava. Questo già succedeva tra fine anni ’80 e gli anni ’90. Basta pensare a Gino Veronelli, Ave Ninchi, fino a Mario Soldati in Viaggio nella valle del Po. La televisione è piena di cucina, solo che una volta aveva un bacino di utenza molto più distretto. Adesso MasterChef, con i social che ci sono intorno e gli investimenti pubblicitari, non è più solo una trasmissione dove ti insegnano a fare un piatto.
Certe volte gli chef non sono un po’ troppo duri con i concorrenti?
Quello è per fare spettacolo. Se uno cerca di andare lì, sa che o è bravo e viene esaltato o viene preso a male parole. Sai l'Isola dei famosi? Chi va lì sa che dovrà far finta di aver tradito uno, sa che deve dare il peggio di sé, perché deve fare audience. Io distinguo sempre i cuochi della tv che restano cuochi nella vita. Antonino Cannavacciuolo, ad esempio, è un cuoco bravissimo. E lui ha preso la terza stella dopo anni che andava in televisione. Sa che quando le persone vanno al suo ristorante vogliono vederlo, quindi lui si fa trovare e sta anche molto attento alla qualità del suo cibo.
Alcuni chef che vanno in tv sono più attori che cuochi?
Sì. Cioè, sanno cucinare ma non saprebbero mai gestire un ristorante con 50 persone a pranzo o 50 alla sera. Magari puntano più sul personaggio che sulla cucina. Se vai a vedere Quattro ristoranti con Alessandro Borghese, o anche Quattro Hotel con Bruno Barbieri, sono comunque bravi a imporre questo confronto, mettendo uno contro l'altro i titolari. Sono belle trasmissioni. Io non ci andrei mai, perché non è bello spingere la gente a parlare male e a fare audience. Però nel suo genere Borghese ha imposto un nuovo format. Per cui, bravo.

Carlo Cracco ha annunciato che utilizzerà l’intelligenza artificiale nel suo ristorante. È un bene o un male?
È un bene, se la userà bene. Lui è venuto a Identità il 24 di febbraio, e tutti erano molto interessati a seguirlo. Però nel mondo della ristorazione siamo ancora molto indietro con l’intelligenza artificiale. C’è molta curiosità e c’è molta voglia di capire a cosa può servire. A Milano c'è un gelataio che dice di usare l'intelligenza artificiale per gestire un po' il lavoro. Gusti e ingredienti. E questo lo lascia libero di dedicare più tempo ai suoi clienti.
Anche questo non rischia di portare via posti di lavoro alle persone?
È la paura che hanno tutti. Però tu pensa a quando è nata l'automobile. All'inizio funzionavano male, andavano piano, le gomme si bucavano. Parlo di cento e passa anni fa, no? Però poi, piano piano, diventò evidente che il futuro era quello. Io, quando ero a Il Giornale, sono entrato nel gennaio 1980, usavo la macchina per scrivere. L’Olivetti, i martelletti, la tastiera. Però quando hanno cominciato a circolare i computer per comporre le pagine era chiaro che quello era il futuro. Bisognava solo aspettare un cambio generazionale. Cominciarono a non assumere più tipografi. E piano piano alla fine è andato il computer ai giornalisti. Certe cose sono inevitabili. L’importante è imporre dei limiti all’intelligenza artificiale. Prima o poi lo affronteremo, perché l’intelligenza artificiale è più veloce di quello a cui tu sei abituato, il vero problema è quando ti manipolano dei filmati. Ci deve essere un potere politico che legifera in materia.
A Milano, dopo l’arresto di Davide Lacerenza e Stefania Nobile, ci si chiede anche quanti altri locali, oltre allo champagne, i cocktail o il vino, favoriscano la prostituzione o l’uso di stupefacenti. Secondo lei il fenomeno è molto diffuso o isolato?
Molto diffuso no, però ci sono sempre stati e ci saranno sempre. Di Lacerenza si sapeva da anni. Ce n’era uno verso il Lago di Como dove potevi andare a cenare ma, se ti accordavi, ti facevano trovare una ragazza e ti facevano andare in una stanza. Esiste la prostituzione, così come il consumo di stupefacenti. Se non interviene la questura, tu non puoi andare a dire cosa hai visto in quel posto. Ti ricordi quando i Maneskin hanno vinto l’Eurovision? C’era uno di loro che aveva la testa chinata sul tavolo e sembrava stesse tirando cocaina. Non puoi scrivere “sono andata in un ristorante e ho visto che tanti andavano al gabinetto”.
In pratica, ciò che fa la differenza è se diventa o meno un caso mediatico?
Sì, guarda, quando a Milano, o anche a Caserta, chiudono un locale perché trovano del cibo scaduto nelle cucine, se è un locale cinese nessuno va a chiedersi chi sono. Quando invece trovano qualcosa di sbagliato in un ristorante stellato, subito scrivono nome e cognome. Nel caso Lacerenza, c’erano dei nomi importanti. La tristezza è questa, che purtroppo ci son posti così che hanno tanto successo. Però è gente malata, non è gente normale. Spendono delle cifre enormi. L’importante è evitare certi posti, anche di recensirli.
Restando al settore, i dazi annunciati da Donald Trump su vini, spumanti e champagne, quanto potranno penalizzare il settore in Italia?
Tantissimo, non solo in Italia, ovunque. Le esportazioni vanno dove c’è una richiesta, dove c’è il mercato. La cosa brutta è che è tutto fatto in maniera un po’ schizofrenica, un giorno vuole mettere i dazi, un giorno no. Quando uno è imprenditore fa dei ragionamenti in base alla realtà economica, politica e sociale. Allora uno può dire “io in quel paese lì non esporto”, per i motivi che vuole. La cosa brutta di questa guerra dei dazi è che è scoppiata all’improvviso e non sai su che basi ragionare. Non è un modo di procedere. Abbiamo avuto la pandemia, poi la guerra in Ucraina, poi la guerra in Medioriente, però di guerre nel mondo ci son sempre state. Lo Yemen da quanti anni è in guerra civile? Però adesso se i pirati assaltano le navi in transito è una tragedia. Le cose possono cambiare in maniera così imprevedibile. Chi comprava una Tesla poteva sapere che sarebbe diventato un simbolo della prepotenza americana? Il mercato è anche politica.
Come valuta l’operato del ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, nel settore agroalimentare?
Bene, è uno che pone molta attenzione sul mondo agricolo e questo è molto importante.
Spesso viene criticato per alcune sue dichiarazioni, ad esempio disse che bere troppa acqua può portare alla morte.
Secondo me lo fa anche perché c’è poca attenzione sull’attività del ministro dell’Agricoltura, vengono visti un po’ come dei burocrati. Fa queste cose per attirare l’attenzione sul mondo agricolo. Mio nonno aveva una cantina e diceva: “Se bevi troppa acqua ti vengono i rospi nello stomaco”. Anche lui diceva che l’acqua faceva male, ma era una battuta. Io trovo molto peggiore tutti i tentativi dei paesi del Nord Europa di far passare il vino come se fosse un cancro. Il vino in questo momento va difeso e promosso nella sua massima qualità, che poi è una guerra economica tra chi produce il vino e chi non lo produce.
