Fabrizio “Flaco” Castelli, fino al 2014 storico chitarrista dei Punkreas, canta grave, poi il ritornello “apre” tutto in modo netto. Il nuovo singolo, “Luce”, insieme ai Blak Vomit, è una botta salutare. Impreziosito da un bel video girato da Francesca Nervi, è un pezzo nato, ci dice Flaco, “da un incontro magico”. Un pezzo che prende in esame la questione Ucraina e ciò che ne deriva: “Incredibile che in Europa non siano passate voci – se non aspramente criticate, se non addirittura bullizzate – che promuovessero la pace. E parliamo di un continente che sta pagando un prezzo molto alto per questa guerra, in modo diretto e indiretto. Spese allucinanti per le armi, intanto scuola e sanità vanno a pezzi. Difficile cogliere immediate relazioni di causa-effetto, tuttavia mi pare evidente una generalizzata diminuzione dei diritti sociali in un contesto macro-economico che produce vaporizzazione”. “Luce” come spiraglio, per puntare alla pace senza correre il rischio di essere tacciati di essere filo-russi.
“Luce” è oggettivamente una collaborazione gloriosa, vi siete compensati alla grande.
La parte musicale è opera di Jena Favero (Blak Vomit), che ci ha lavorato come un fine cesellatore. L’impasto che ne è uscito è stato particolare. Tra l’altro, musicalmente, ci conosciamo da sempre, ma l’incontro umano che ha dato origine a questa collaborazione è affare più recente.
“Ci conosciamo da sempre”. Ci riporti a quell’epoca – diciamo i Novanta – in cui la scena punk italiana appariva molto unita. C’era un diffuso senso di condivisione, familiarità. Credi che oggi sia rimasto qualcosa di quel senso di comunità e di quello spirito?
Il desiderio di condividere qualcosa, di partecipare, si univa alla percezione/illusione di poter incidere sulle cose. Ancora oggi sono molto orgoglioso di aver scritto e cantato “Canapa” (2002), a cui associammo (parla dei Punkreas, nda) un video che mostrava quanto biecamente repressiva fosse la legislazione, sia nazionale che internazionale, nei confronti dell’uso della cannabis. Credo che tante cose siano cambiate, in peggio, dopo il G8 di Genova (2001). Quell’onda si è persa. Quell’evento storico sembra ormai lontanissimo, ma gli effetti di quella disgregazione si sentono ancora oggi. Il circuito punk, ma non solo, deve ancora riaversi da un senso di impotenza generalizzato.
E una canzone come “Luce”, per rimanere nella tua contemporaneità, come pensi possa suonare alle orecchie della Gen Z?
I miei test, per ora, sono stati strettamente famigliari. Mi confronto con due figli completamente votati alla cultura rap/trap, però per adesso non mi hanno tolto la patria potestà (ride, nda). Credo che questo brano, anche involontariamente, sia certamente figlio di un piglio punk, ma la sua forma sia più aperta. È un mid-tempo melodico che contiene anche violini e pianoforte. Non è qualcosa di così consueto, spero ci sia la voglia, da parte di chi ascolta, di cogliere qualche segno antagonista. Cogliere il senso di un’arte meno fine a sé stessa. Stiamo vivendo in un contesto economico-politico ansiogeno e devastante, davvero chi non si inserisce in questo flusso di pensieri appiattiti è destinato per forza a schiantarsi?
Esiste oggi quella che potremmo definire una “inevitabilità trap”? Come se i più giovani fossero quasi obbligati a passare da lì?
Direi di sì. Una parte del fascino di questa musica risiede nel godere a contrariare i genitori. È una musica che a me non arriva, la percepisco quasi come una forma di provocazione nei miei confronti. E qui parlo da boomer: ciò che della trap mi lascia perplesso è l’esaltazione iperbolica del consumatore medio. Badate, parlo di ciò che mi è capitato di ascoltare. Coca, donne, brand: non ci ho sentito dentro molto altro. Mi sembra un limite “rispecchiare” lo status quo senza mai contestarlo. Torno quindi a più di vent’anni fa, quando c’era ancora la convinzione che la gente – la base – potesse essere critica e mettere in discussione determinati modelli di sviluppo. Oggi, a guerra persa, possiamo dire che i problemi allora segnalati sono entrati nell’agenda di quasi tutti i politici, penso al riscaldamento globale o agli effetti del Mercato globalizzato. Ma all’epoca tutto ciò fu preso a manganellate.
Genova e il punk come illusioni. Vista com’è andata a finire, anche la tua storia con i Punkreas è stata un po’ un’illusione?
Forse sì. Le aspettative erano alte, tutto qui. Atterrare non è stato facile. Ma io non ho un’opinione per forza negativa dell’illusione, soprattutto se creativa. L’illusione, per me, è un’aspettativa che rende possibile produrre determinate cose. Avere la percezione di dire la tua segnando gli eventi, gli incontri e le situazioni che attraversi. Il rapporto con i Punkreas non è finito granché bene, ma questo fa parte della vita.
Ho letto tue parole molto lusinghiere nei confronti di Giovanni Lindo Ferretti. La recente reunion dei CCCP è partita splendidamente, con elogi unanimi. Poi i fischi ad Andrea Scanzi in teatro, la polemica di Umberto Negri, primo bassista della band. Come hai vissuto questo evento che ha segnato i primi mesi dell’anno in corso?
Sono poco obiettivo, per me Ferretti, o Johnny Rotten, possono fare quello che vogliono. Sono e resteranno sempre idoli. Proprio per queste ragioni mi sono tenuto lontano da concerti e mostra, per quanto sia vecchio non avevo voglia di indugiare sulla nostalgia come forma di consolazione. Sono contento se hanno monetizzato, se lo meritano. Sono i frutti di semine lontane ma importantissime. Forse le cose, in corso d’opera, si sono complicate perché i CCCP di oggi rimandano a una forza, a una capacità espressiva, a un senso di possibilità che, ahimè, non sono più così attuali. Se poi tirassero fuori un album nuovo, sarei solo felice e curioso di ascoltarlo. Soprattutto se fosse in grado di pronunciarsi con autorità sul mondo di oggi.
Manca, oggi, “un punk”, qualsiasi forma possa assumere?
La mia idea è che il punk che abbiamo conosciuto sia stata l’ultima fase di sviluppo della cultura artistica occidentale. La fase di radicale contestazione di ciò che l’Occidente era ed era stato. Dopo quel periodo è il mondo che è diventato punk. Le coordinate sono cambiate e oggi non sono certo che la definizione di un nemico e di un’identità a cui contrapporsi sia ciò di cui abbiamo più bisogno. Forse è più urgente trovare modalità meno conflittuali. Perché siamo in un contesto totalmente interconnesso in cui mancano le mediazioni. Senza mediazione rischiamo scontri clamorosi, quasi definitivi, ogni momento. Servono forme di mediazione sociale. Pensa al costante bisogno di psicologi. Tutti vanno dallo psicologo, anche in fase pre-adolescenziale. Ma se tutti vanno dallo psicologo, allora il problema non è più solo personale, ma sociale. Se il disagio è così diffuso il problema è il nostro modo di (non) aggregarsi. E tutti, in primis la politica, ha scoraggiato l’aggregazione. Dalla digitalizzazione al governo Meloni.