La città americana per eccellenza, New York, vista dall’alto mentre si specchia nel suo doppio. Le cime dei palazzi che si toccano, le strade che si dividono speculari. Finiti i titoli, comincia la storia. Anche qui, la doppiezza: “Love is love. Hate is hate”, “l’amore è amore. L’odio è odio”. Semplice, a quanto pare, ma non scontato. Non secondo Luca Barbareschi, regista, interprete e anche produttore di The Penitent, film già presentato alla Mostra del Cinema di Venezia. La sceneggiatura di David Mamet, poi, prende ispirazione da un fatto di cronaca realmente accaduto in America alla fine degli anni Sessanta. Barbareschi veste i panni di uno psichiatra che ha avuto in cura un ragazzo, poi autore di una strage in una scuola, dove ha fatto otto morti. Sui giornali, però, prima ancora che dell’assassino, si parla del medico. E della sua considerazione dell’omosessualità. In una frase riportata dalla stampa si legge: “L’omosessualità come aberrazione”. Un’espressione storpiata che originariamente recita: “L’omosessualità come adattamento”. A complicare le cose c’è la questione del limite del segreto professionale: quello dello psichiatra in primis, ma anche quello dell’avvocato Richard. Può la legge chiedere gli appunti riservati di un analista che sta curando una persona che soffre? Cosa farsene del contenuto di quegli scritti? Le parole in quelle pagine sono opinioni, diagnosi o confessioni? Come se non bastasse, infine, la conversione all’ebraismo di Charles (così si chiama lo psichiatra di Barbareschi) getta ulteriori ombre sulla scelta del medico di non testimoniare in difesa del giovane killer. Il dubbio è che in nome del rigore interpretativo della parola di Dio, Charles possa aver scelto di non difendere una persona “non conforme”. Nell’interrogatorio con l’avvocato difensore, infatti, la questione viene sviscerata. Il riferimento al giuramento di Ippocrate (e alla riservatezza che impone) su cui lo psichiatra insiste, però, non convince la legge, e nemmeno la moglie, interpretata da Catherine McCormack. Fino a qui, quindi, la storia di un uomo che vive un conflitto: tra la propria professione, la voglia di conservare la propria reputazione, la sua fede in Dio e il senso di colpa. Ma Barbareschi vorrebbe parlare di qualcosa di più. O quantomeno di diverso.
In The Penitent c’è tanta roba messa sul piatto. Forse troppa. Specie se, come accade in particolare nella prima parte, nessuno dei concetti che chiama in causa vengono affrontati con la giusta efficacia: le conversazioni di Charles con la moglie e l’avvocato sono ripetitivi, troppo lunghi, non sufficienti a spingere la profondità della questione oltre la semplice domanda: “Perché, Charles, non vuoi consegnare i tuoi appunti?”. Per il resto, lo psichiatra si nasconde dietro all’immoralità di un’eventuale cessione degli scritti. Più interessante, anche se, come molte altre sequenze, eccessivamente lunga, quella del confronto con l’avvocato. Partendo da lontano (molto lontano) e dall’antico testamento, si arriva al punto decisivo: Charles non vuole testimoniare per la difesa perché la parola di Dio nega la dignità degli omosessuali? Ma in The Penitent c’è soprattutto la battaglia personale di Luca Barbareschi contro il politicamente corretto e la presunta semplificazione che ne segue. Il linciaggio che subisce, infatti, non viene analizzato nel dettaglio, rimanendo un accenno sullo sfondo (al massimo, il punto è il pessimo giornalismo). La problematica che salta più all’occhio è proprio quella dei limiti del segreto professionale. La macchina del fango non va oltre il coro con cui si apre il film, mentre il resto del tempo si tratta, piuttosto, di azioni legali a cui lo psichiatra cerca di opporsi. Insomma, la sua battaglia, quella di Barbareschi, si allontana dal centro dell’opera: vuole essere cattivo, forse, ma non si accorge, in realtà, di non essere così radicale come sembra. A meno di sottovalutare il “problema”. La macchina del fango, la cancel culture, il politicamente corretto: sono argomenti complessi, piacciano o meno. E The Penitent non basta ad affrontarli.