Parto da lontano. Parto sempre da lontano, a riprova che forse non è poi così vero che parto da lontano, che, come dice quella frase così incredibilmente memabile, è il viaggio stesso la meta, da non confondersi con Meta, ché quella è altra faccenda. Parto da lontano, e Deo gratia che non ho citato già in esergo Lontano lontano di Luigi Tenco, ci sto arrivando, lo sapete, ma Tenco c’entra, e c’entra anche Lontano lontano. Perché in quel lontano da cui parto, il viaggio che è la meta, c’è un ritorno. No, ovviamente non c’è un ritorno di Tenco, non sono Francesca Michielin, seppur a gennaio ci sarà un ritorno di Ivan Graziani, un ritorno discografico, otto tracce ritrovate e poi tirate a lucido da suo figlio, di Ivan, Filippo, Per gli amici il titolo. Parlo del ritorno dentro le nostre televisioni di Enrico Ruggeri, un rimando enzotortoriano a inizio di puntata del suo nuovo programma, Gli occhi del musicista, titolo preso paro paro da una sua canzone, un rimando enzotortoriano a quando il suo precedente programma, Una storia da cantare, venne messo in soffitta, o annegato nella vasca, da un cambio di governo. In questo nuovo programma, la meta è il viaggio, è vero, ma viaggiare da fermo, Angelo Ferracuti permettendo, è esercizio che non mi piace troppo, sei puntate in seconda serata su Rai2 dedicate a altrettanti grandi cantautori italiani, si è parlato di Luigi Tenco, tanto per cominciare, e Ron, nello specifico, uno degli ospiti musicali in compagnia di Francesco Baccini e Fulminacci, ha interpretato proprio quella Lontano lontano che in genere viene interpretata a Sanremo da chi vince la Targa Tenco alla carriera, Ron quest’anno, Ruggeri un paio di anni fa. Nel parlare di Luigi Tenco, Ruggeri si è soffermato su svariati aspetti, con Fulminacci si è addirittura (in fondo è il servizio pubblico, baby) parlato di come si scriva una canzone, prima la musica poi il testo, inizialmente appoggiato sulle strofe e ritornello in finto inglese. Tra un brano e l’altro Enrico Ruggeri, ecco che stiamo per imboccare l’autostrada, ha dato vita a un duetto orale con la sua partner televisiva (ognuno ha la propria tassa da pagare), Flora Canto. Duetto che ruotava intorno all’idea di parola. Un cantautore, ha spiegato lo stesso Ruggeri, è sì attento alla musica, ma principalmente alle parole, ha aggiunto. Ecco, di questi giochi di parole intorno alla parola parola, mi saprete perdonare, prendo tre passaggi, a mio modo di vedere ottimi a far detonare il discorso. In italiano la parola “parola” ci offre l’opportunità di dire frasi quali: “È una parola”, quando si vuole dire che qualcosa è difficile da affrontare, tanto per darle il giusto peso, e anche “ti do la mia parola”, affidandole quindi la propria credibilità, ma si dice anche, come a volerle sottrarre potenza, “è facile a parole”. Ecco, lasciamo Enrico Ruggeri a preparare la prossima puntata de Gli occhi del musicista, andiamo oltre.
A dare uno sguardo, anche distratto, alla classifica di vendita dei dischi, mi piace dire così perché a me interessa sempre che le parole disturbino, turbino, in questo caso stridano, non si può non sapere che è uscito il nuovo lavoro di Massimo Pericolo, Le cose cambiano. È suo l’album in vetta a quella classifica, sopra X2VR di Sfera Ebbasta, La divina commedia di Tedua, I/O di Peter Gabriel e Pizza Kebab Vol.1 di Ghali, lo so, fa già abbastanza stridere così. Suo è anche il primo posto nella classifica dei singoli, con MoneyLove, in compagnia di Emis Killa, gli altri brani dell’album sparpagliati per la top 100. Massimo Pericolo non si chiama Massimo Pericolo, non ha genitori cui stava evidentemente sul cazzo, almeno questo non si evince dal nome all’anagrafe, seppur un passato fatto di problemi seri anche con la legge, tra carcere e domiciliari, qualche spiraglio a riguardo lo introduce, Alessandro Vanetti, nato a Gallarate, in provincia di Varese nel 1992. Se metti il suo nome su Google, l’ho fatto, per sapere appunto come si chiamasse, appunto, una delle prime foto che appaiono è la copertina del suo album d’esordio, Scialla Semper, che ce lo mostra mentre si punta una pistola alla tempia, Massimo pericolo per se stesso, evidentemente, come del resto tutte le canzoni di quel disco lasciavano intuire. Ad ascoltare le sue tracce, che con quel titolo autoassolutorio, virano un po’ verso il pop, rispetto a una cupezza violenta esibita fin qui, con quel suo giocarsi costantemente, parlo del passato, la carta dell’essere ai confini della legge. Concetto qui rappresentato da alcuni feat, penso a Speranza, certo, ma ancor più a Baby Gang e Niko Pandetta, entrambi direttamente dal gabbio, in realtà in tracce a loro volta decisamente addolcite, pop, appunto. Gli altri feat, a parte quello di Emis Killa nella già citata MoneyLove, una delle tracce più riuscite della covata, sono quelli di Tedua, in Straniero, e Guè in Di persona (fatto che mi fa pensare di essere uno dei pochi umani a non avere mai avuto un feat da Cosimo Fini, vedrò di metterci una pezza), Barracano ad accompagnare Speranza nei feat di Fils de puta.
È vero, le cose cambiano, titolo docet, ma se si pensa al fulminante esordio di Scialla Semper, anno Domini 2019, urgente e cazzutissimo, con uno stile già più che riconoscibile, feroce e preciso, o al secondo album, quello canonicamente più difficile, Solo tutto, dove quell’urgenza era stemperata in maggiore consapevolezza e ulteriore stile, le basi dei Crookers, di Nik Sarno e di Goedi a tratteggiare un perfetto connubio tra le sue barre rap e la loro elettronica, potremmo anche dire con una certa sfacciataggine di fondo (certo, Cazzo culo con Salmo non era esattamente stemperato, ma nell’insieme il lavoro fatto di cesello, penso a Casa nuova con Venerus, era davvero notevole, un upgrade come raramente è capitato di ascoltare nel genere in questione), ecco se si pensa a quell’uno-due al volto, intendiamoci non è certo Massimo Pericolo il mio artista di riferimento, ma un talento è talento anche per quel suo farsi riconoscere pure da chi parla una lingua differente, anche fosse per scelta, e lui è uno di quelli che del nuovo rap è campione indiscusso; ecco, se si pensa a tutto questo, confesso, un po’ cascano le palle, perché è come se di colpo si fosse trasformato in realtà quel geniale verso ironico di Luca Carboni, contenuta in Sexy, da Forever, anno Domini 1985, “oh, ma giura che credi che le cravatte tolgano il respiro e certe strane idee”, quello sì un incipit fulminante. Perché Massimo Pericolo, a inseguire Blanco o chi il pop in chiave urban lo fa per naturale predisposizione, non per moda e men che meno per paraculaggine, sembra proprio imborghesito, come uno che si compra una matita di quelle anche costose, non le classiche Hb a strisce gialle e nere, e poi si spezza da solo la punta, finendo per lasciare sui fogli segni sbiaditi, incomprensibili (almeno nelle intenzioni). Quindi torniamo alle parole: è indubbio come le parole siano centrali per i cantautori, perché tecnicamente sarebbero cantautori anche molti di quelli che noi consideriamo come meri cantanti, proprio per il non dar loro troppo peso (loro a quei cantautori lì, e loro le parole, fate voi), ma è altrettanto indubbio che le parole siano centrali anche per i rapper, se non di più. Intendiamoci, lungi da me anche solo ipotizzare che un rapper sia meno di un cantante perché non sa cantare, o perché usa l’autotune, quelle sono cazzate buone per chi pratica poco di musica. L’autotune è un filtro, esattamente come lo è un distorsore per chi suona la chitarra, e non è che diciamo che Slash non sa suonare perché usa gli effetti sulla sua sei corde.
Il rap è una forma di canto che spesso, forse sempre, chi magari è intonatissimo e che ha una voce educata non sa praticare, seppur nessuno si sognerebbe di dire, che so, che Celine Dion non sa cantare perché non sa rappare come Eminem (nessuno sa rappare come Eminem, del resto). Lungi da me dire questo, ma è ovvio che un genere che abbia come focus quel che si riesce a dire non può che avere le parole al centro, quindi lo stile, ovviamente di pari passo col flow, che sarebbe il modo in cui quelle parole vengono declinate sul ritmo. Tutto questo per dire che, a occhio, o meglio, a orecchio, il Massimo Pericolo di oggi, quello di Le cose cambiano, la sciatteria di quel “cose” che gli sarebbe valso un segno blu su un tema, sembra un rapper, un cantautore, che abbia deciso o sentito di passare con la spavalderia che gli avevamo già riconosciuto in passato dall’essere uno che si riconosceva in quei “è una parola” o “ti do la mia parola”, a uno che si accontenta che la sua arte venga trattata come “è facile a parole”, non per una questione di capacità di comunicare qualsiasi cosa verbalmente, ma proprio per quel depotenziamento che poi porta in genere alla chiosa “parlano i fatti, non le parole”. Detto in parole povere, se il primo ha colpito al volto, il secondo al cervello, il terzo al colon, perché fa abbastanza cagare. Peccato, magari la prossima volta farà di meglio.