C’è un brutto film di tanti anni fa di Silvio Soldini, vorrei partire da qui. Lo conosco, perché è ambientato nella mia città natale, Ancona, e non è che ci siano tutti questi film di registi famosi ambientati nella mia città natale. Questo film, a differenza, che so, di La stanza del figlio di Nanni Moretti, che è ambientato nella mia città natale, Ancona, e che la mia città natale mostra evidenziandone le bellezze, pur essendo una storia assai tragica, della mia città natale fa vedere solo le cose brutte, che per altro nel mentre non ci sono più. Soldini, infatti, mostra quelle che per anni sono state il simbolo della città, le cosiddette incompiute, una serie di piloni di ponti, strade lasciate a metà, pezzi di cemento vivo, lasciate così da un noto costruttore che poi venne arrestato. Il film, però, non è brutto per questo, è brutto perché è brutto, e quindi coerentemente mostra cose brutte, quindi forse non è poi così brutto, chissà. Comunque, c’è un brutto di film di tanti anni fa di Silvio Soldini, ambientato nella mia città natale, da cui vorrei partire. Questo film brutto di Silvio Soldini di tanti anni fa ambientato nella mia città natale ha un bel titolo, Un’anima divisa in due, questo è quello da cui vorrei in effetti partire. Un’anima divisa in due. Ho visto la prima data del tour di Michele Bravi al Teatro Dal Verme di Milano, sold out nel quale io rappresentavo, a occhio, la quota uomo di mezza età, il pubblico era composto per il 95% di giovani donne. Un concerto, confesso, che mi ha totalmente spiazzato, in positivo. Che Michele Bravi fosse persona sensibile è cosa nota, notissima. È un po’ la sua cifra, come se uno, che so, parlando di Bruno Conti, o di Roberto Donadoni, parlo di calcio, avesse detto che erano bravi a correre sulla fascia, dribblare e crossare. Ecco, Michele Bravi è una persona sensibile. Le sue canzoni, quasi tutte, sono canzoni di una persona sensibile. Il suo core business, questa che può sembrare una frase insensibile, forse addirittura critica, è in realtà una mezza citazione, dove il citato è proprio Michele Bravi, attenzione, ci arrivo, è la sensibilità che trapela dalle sue canzoni. Ecco, forse dovrei dire sensibile e malinconico, addirittura triste. Perché, questo mi è ben chiaro ora che ho visto il suo concerto, ai suoi concerti si vivono momenti molto intensi, in cui lui, Michele Bravi, e il suo pubblico assai affezionato, di cui io rappresentavo la quota uomo di mezza età, piangono senza neanche far finta di piangere, così, con orgoglio. Anche questa, che può sembrare una frase insensibile, attenzione, ha un senso, arrivo anche a questa. Basta, ci sto girando troppo intorno, vado al punto. Michele Bravi ha un’anima divisa in due. Magari anche in tre o in quattro, ma dal suo concerto due anime vengono fuori in maniera evidente, clamorosa, arriverei a dire. È un ottimo crooner, uno che canta con voce in realtà assai poco sussurrata, ma che comunque metaforicamente ci sussurra alle orecchie, ci invita a piangere con lui, giocando con le sue e le nostre, forse dovrei dire le loro, sue e del suo pubblico affezionato, fragilità. Un ottimo crooner, va detto, perché lo spettacolo è coinvolgente, emozionante, tinto di blu.
Ma Michele Bravi è anche un ottimo stand-up comedian, bravissimo a intrattenere, palesemente a braccio, il suo pubblico, e anche chi, come me, del suo pubblico non fa parte. Racconta, sciorina aneddoti personali, anche mettendo in evidenza gaffe e aspetti poco poetici, e lo fa con ottimi tempi comici, coinvolgendo anche qui tutti, me compreso. Prima di passare, poi, a canzoni che fanno piangere e commuovere, la quota canzoni movimentate, allegre, sarà di una a sei o sette. Un crooner che è anche uno stand-up comedian, quindi, con le parole parlate che occupano un terzo, forse anche più, dello spettacolo. È vero, questo non è uno spettacolo qualsiasi del suo tour, è la prima data, nella città nella quale ha scelto di vivere. Quindi Michele si sente di andare davvero a braccio, si sente in casa. Ma, miracolo, essere un crooner e uno stand-up comedian, funziona, e funziona tantissimo. Anche per chi, come me, non è parte di quel pubblico, non capisce i riferimenti, non sa di cosa stia parlando quando parla di quel suo ex, o fa riferimenti a fasi della sua vita che magari non sono poi così note a un pubblico altro dal suo. Un’anima divisa in due, quindi, che a differenza del film di Silvio Soldini ambientato nella mia città natale, è assai piacevole, bello. Lo dico perché Michele Bravi fa una cosa che, forse per questioni generazionali, a dicembre farà trent’anni, forse per questioni culturali, chissà, non avrei capito fossi ancora rimasto nella mia città natale, o avessi visto quando io avevo suppergiù la sua età e da quelle parti vivevo. Parla e parla di sé senza nascondersi, ironizzando sul suo dolore, prima, salvo poi elevarlo all’ennesima potenza, sublimandolo, e permettendo al suo pubblico di sublimarlo nelle sue canzoni. Cosa rara, questa, che succede quasi sempre solo nelle canzoni. Parla del suo blocco dello scrittore, tutto lo spettacolo ruota intorno al concetto di figura retorica, centrale nel suo ultimo album Tu cosa vedi quando chiudi gli occhi, parla della sua omosessualità senza mettere l’omosessualità al centro della scena, fatto sorprendente, pensando, che so, alle pantomime di un Tiziano Ferro, di soli quattordici anni più vecchio di lui, ma sempre lì a frignare senza un briciolo di ironia o di autoironia. Ecco, Michele Bravi è coinvolgente, lo è per il suo pubblico, quasi totalmente femminile, partecipe di ogni suo sguardo, sua parola, e lo è anche per chi, come me, non fossi un uomo sensibile che vive in una città come Milano, avrei assai poco da spartire con lui, per anagrafe e origini. Dico questo, passando indubbiamente per più insensibile di quanto non sia, ma per sottolineare come l’arte sia in effetti davvero capace di parlare per conto nostro, e in questo caso l’arte è molteplice, c’è quella delle canzoni, che ti trasportano, per dirla con le parole di una fan, Michele dialoga coi suoi fan durante il concerto, lasciandoli, anzi, lasciandole parlare, che ti trasportano in un posto in cui sei al sicuro, una ragazza ha detto di ascoltarle piangendo seduta dentro la doccia, e c’è nei suoi monologhi, che giocano con l’ironia come se il famoso discorso sull’ironia di David Foster Wallace non fosse mai stato pronunciato, viva Dio.
Questa alternanza di sensazioni, sulla carta impensabile e impossibile, tiene in piedi un concerto show di due ore buone, supportato da una ottima band, di cui il solo nome che ricordo, sono un uomo di mezza età, ricordiamolo, è quello di Matteo Di Francesco, batterista nonché fratello del direttore artistico dello show, Carlo Di Francesco, poi c’è un pianista, un chitarrista e corista, e una sezione di quattro archi. Non credo, anche io come lui lavoro con le parole, pur non avendo mai avuto, credo, il blocco dello scrittore, di aver minimamente reso l’idea di cosa ho visto e sentito. Uno spettacolo dove emozione e divertimento viaggiano mano nella mano, certo le emozioni in teoria sedute nel posto vicino al finestrino, in bella vista e con una panoramica migliore, ma comunque col divertimento lì a fianco. A un certo punto, verso il finale, Michele ha ringraziato chi gli sta a fianco, sottolineando un totale cambio dei suoi collaboratori, dicendo che parlare di poesia oggi in discografia è qualcosa, qui mi invento io una metafora perché non ricordo quale ha usato lui, che non sta né in cielo né in terra, fatto che vuole sottolineare come stare dentro un teatro con così tante persone pronte a emozionarsi per canzoni che ruotano intorno alla sensibilità sia cosa rara, rarissima. Anche questa cosa dell’essere sorpreso, lì però fingeva, e grato, qui invece no, per la presenza di così tanta gente disposta a emozionarsi con le sue canzoni l’ha sottolineata più volte, va detto. Ecco, ha sorpreso molto anche me, come mi ha sorpreso ritrovarmi tra queste persone, non nel senso che mi sono sorpreso di essere lì, ci sono andato per mia scelta, cosciente di andarci, quanto piuttosto di vivere fino in fondo tutto lo spettacolo, non come un entomologo che osserva il tutto da fuori, per intendersi, anche se non ho pianto, questo no, sono pur sempre un uomo di mezza età nato nel centro Italia, dalle sue parti, per altro, dove piangere in pubblico non credo sia mai concesso. Lui, Michele Bravi, giocando credo sul fatto che sa che il suo pubblico lo adora, giustamente, ha più volte detto di aver lucrato sul fatto di cantare il dolore, ha detto proprio così, io credo, e lo credo perché sono un uomo di mezza età e ne ho viste e sentite tante, che in realtà quelle battute stessero lì perché lui ama dire di stare a nudo di fronte a tutti, ma un po’ di pudore nello starci ce l’ha, infatti poi si nasconde dietro quelle battute, per altro perfettamente riuscite. Lo spettacolo di Michele Bravi, in conclusione, mi ha rappacificato con la brutta visione di un brutto film di Silvio Soldini, va detto, e, ammetto, mi ha fatto vedere qualcosa che mi ha sorpreso, e Dio solo sa quanto sia ormai difficile farsi sorprendere da qualcosa. Un’anima divisa in due, così avrebbe dovuto intitolarlo, non fosse che magari qualcuno avrebbe pensato a quel brutto film. Un’anima bella, ma bella davvero, non come lo direbbe uno che poi aggiungerebbe qualcosa riguardo i radical chic, per intendersi. Un’anima bella divisa in due, ecco.