Finisce un'era. Questa prima parte di storia di Internet, forse, è davvero arrivata all'ultimo capitolo. Un percorso che ha sbandato dalla libertà assoluta all'omologazione: nel cinema, nella musica, nel giornalismo. Il 12 novembre prossimo sarà una data storica: in Italia i siti po*nografici dovranno implementare alcune limitazioni all’accesso. Se fino a ora bastava autodichiararsi maggiorenni per entrare, ora servirà un token, fornito da un ente terzo, che certifichi la maggiore età dell’utente. Un progetto su cui l’Ue sta lavorando da tempo e che ha già messo in conto la costruzione di un’app dedicata all’emissione del token. In Italia potrebbe arrivare entro fine anno. Milena Gabanelli nel Data Room aveva fornito alcune statistiche utili a inquadrare la questione: l’88% dei maschi adolescenti guarda video hard, solo il 40% delle femmine. Un ragazzo su quattro crede che la donna debba essere dominata in un rapporto. Ma le conseguenze della pornografia sui giovani sono un tema spigoloso, che deve tener conto del ruolo della scuola, dell’educazione e dei social come OnlyFans. Come si conciliano consapevolezza, emotività, sessualità e rispetto? È complicato. Il 12 novembre è però una tappa fondamentale anche per un altro motivo. Parliamo dell’Internet in quanto tale: un mare infinito e navigabile gratuitamente e liberamente. Questo almeno era il sogno di molti dei suoi creatori.
È una vecchia utopia cyberpunk, quella della creazione di un mondo “bastardo”, senza genitori a fare da guardiani, autodeterminato e libero. Lo diceva il matematico Eric Hughes nel suo Cypherpunk Manifesto: “La privacy è il potere di rivelare se stessi al mondo in maniera selettiva”, scrive Hughes. In pratica decido io, nel mondo elettronico, come gli altri mi percepiranno. Subito dopo, però, pone un problema: se tra due persone potenzialmente anonime si crea una diatriba di qualche tipo, chi potrà accusare l’altro di aver iniziato? Di quale versione ci si dovrebbe fidare? “Si potrebbero approvare delle leggi [in merito], ma la libertà di parola, ancor più della privacy, è fondamentale per una società aperta; non intendiamo limitare in alcun modo la libertà di parola. Se molte parti dialogano insieme nello stesso forum, ciascuna può parlare con tutte le altre e aggregare le conoscenze relative agli individui e agli altri soggetti. Il potere delle comunicazioni elettroniche ha reso possibile questo tipo di dialogo di gruppo, che non scomparirà semplicemente perché lo desideriamo”. Una volta aperti i cancelli ciò che ne viene fuori non potrà più essere richiuso. Hughes parla di identità quando parla di privacy. Altro tema che oggi è fuoriuscito dagli schermi per riversarsi nel mondo sotto forma di elaborazioni socio-filosofiche sull’identità percepita (come esigo che gli altri mi considerino) e sull’identità sessuale (come posso cambiare il mio corpo liberamente per diventare chi voglio essere). L’elettronica ci ha dato un potere e allo stesso tempo un tesoro da difendere: abbiamo la possibilità di dire chi siamo, ma dobbiamo prevenire che qualcun altro lo dica al posto nostro. Occorre elaborare un nuovo linguaggio, la crittografia, per evitare che questo qualcuno prenda possesso della nostra identità. Nessuno, ad oggi, sembra capace di risolvere il dilemma della condivisione dei nostri dati, del bilanciamento tra la necessità di tutele e la diffusione delle nostre informazioni più private. Dall’accettazione dei “cookies” ne va, ormai, della possibilità di navigare il web. Per i siti hard il compromesso è: identificazione in cambio di riduzione della cultura tossica che secondo molti deriva da quel tipo di contenuti. Strategie. Vedremo come va. Ancora: ci vuole tempo.
La pretesa di avere tutto, gratuitamente (e maledettamente) e subito vale per ogni cosa. La voglia di fruire del cinema da casa, dunque svuotando le sale, aveva creato un oceano solcato da pirati, ladri di diritti, profeti di libertà assoluta della cultura. A rimetterci, sul lungo periodo, sarebbero stati proprio coloro che le sale cinematografiche provavano a farle vivere. Senza romanticismi, intendiamoci: pure chi fa le programmazioni non è esente da responsabilità nell’allontanamento del pubblico dai cinema. Ma di fatto le abitudini degli spettatori sono cominciate a cambiare anche a causa della pirteria. Il Covid ha sancito il passaggio definitivo all’era dello streaming. Ecco, le piattaforme avrebbero dovuto garantire il rispetto del lavoro intellettuale, un giusto compenso per la creatività degli autori, evitando l’utilizzo illegale. In principio, almeno. Molti di quei canali pirata, ormai, sono in disuso. Non abbiamo statistiche alla mano, ma chiunque può verificare da sé che tra Netflix, Amazon Prime, Mubi, Apple Tv+, Disney+, Paramount+ e via dicendo è complicato non trovare qualcosa da guardare legalmente. Tra il compenso e il giusto compenso, però, oltre all’aggettivo c’è un abisso. Due anni fa negli Stati Uniti esplosero le proteste dei sindacati di attori e sceneggiatori contro i ridimensionamenti voluti dai colossi e i salari insufficienti. Un dissenso che blocco diverse produzioni, impattando anche sulla presenza delle star nei festival (molti americani, infatti, quell’anno non vennero alla Mostra di Venezia). Seguirono poi manifestazioni anche in Italia, per gli stessi motivi. Sullo sfondo la grande paura: l’intelligenza artificiale e il timore che una macchina possa sostituire il lavoro umano. Dalla diffusione di Netflix & co. deriva pure un’ulteriore conseguenza, anche questa evidente senza alla base una cultura audiovisiva smisurata: l’omologazione, la ripetizione di pattern nelle serie e nei film presenti sulle piattaforme, l’iterazione degli stessi personaggi. Storie già viste, sempre. Libertà che danneggia il patrimonio intellettuale da una parte, il rischio di vedere le stesse cose dall’altra. Simile il discorso per quanto riguarda la musica: se dall’anarchia di Napster si doveva in qualche modo fuggire, l’alternativa è arrivata con YouTube, gratuito e utile ai creator, che grazie alle pubblicità iniziarono a guadagnare. Anni dopo le cose sono cambiate ancora: Spotify, le classifiche dei brani più ascoltati, la “dittatura” delle performance sopra il sentimento. Presupposti che hanno innescato meccanismi perversi come i finti sold out di cui vi abbiamo già parlato in passato.
In quello stesso internet vengono implementati sistemi di intelligenza artificiale che permettono di riconoscere parole chiave, volti, citazioni di un romanzo, versi di una poesia o note di una canzone. Il tutto senza aprire nemmeno un articolo di giornale. Perché anche il giornalismo, come ogni ambito, è stato profondamente impattato da queste tecnologie. Dunque meglio la facilità di una sintesi, estranea a ogni punto di vista personale. Non serve nemmeno leggere il nome della testata, figuriamoci la firma. Ricerca, proposta di Ia e stessi risultati per tutti. Google ha liberamente deciso di aggiungere questo “servizio” e nessuno, almeno per adesso, può impedirglielo. Una libertà che si confonde con altre, garantite dalla nostra Costituzione, cioè quella di espressione e di informazione. Quindi la limitazione dell’accesso ai siti hard è l’ultima tappa di un percorso accidentato, in cui proseguiamo toccando le pareti con le mani, dove la libertà si ribalta in omologazione. Nel mezzo ai due estremi, entrambi invivibili, ci sono ancora troppe variabili.