Uno spettacolo che parte dal Portogallo, quella terra adatta a “coloro che vogliono lasciarsi con dolore”, ma che poi si allarga. Va in Angola prima e a Capo Verde poi. Si muove, come la danza dei suoi protagonisti, sulle note del fado. Amore, lo spettacolo di Pippo Delbono, non si nasconde neanche rispetto a se stesso: il tema è fin dall’inizio chiaro. Siamo andati a vederlo al Teatro Arena del Sole di Bologna e abbiamo intervistato il regista: la prima domanda non poteva che riguardare questo mondo che sembra voler fare a meno dell’amore. In realtà, ci dice, “c’è un aspirazione all’amore”. È importante che attraverso il teatro si ripensino gli obiettivi della nostra società. All’incontro con il pubblico dopo lo spettacolo, a cui ha partecipato anche il giornalista Gianni Manzella, Delbono ricorda quella domanda che un giornalista della radio gli ha posto (quella radio, in verità, siamo noi di MOW, ma poco importa): “Se potessi parlare con Joe Biden e Vladimir Putin? Gli chiederei quanto vogliono far durare tutto questo e se ne vale la pena”. Forse no, non ne vale la pena. Specie se guardiamo per le strade delle nostre città, così piene di barboni, anche ora che comincia a fare freddo. “Dobbiamo portare gli emarginati a teatro, metterli negli spettacoli”, sottolinea Delbono. Quelle persone, prosegue, “possiedono una profonda saggezza: la saggezza di chi ha passato cose dure nella propria vita”. Una risposta senza compromessi. Del resto, lui ha dedicato la sua carriera a coinvolgerle, nei suoi documentari così come negli spettacoli. Era così in Vangelo, dove i protagonisti sono i migranti del centro di accoglienza di Villa Quaglina di Asti, così come in Guerra, girato vent’anni fa in quella terra dove adesso si combatte, tra Israele e Palestina. Una postura che anche la sinistra dovrebbe condividere: quest’ultima deve ritrovare la forza di essere rivoluzionaria. Troppo lo spazio lasciato a questa destra. Probabilmente hanno ragione quelli che dicono che il teatro costa troppo, che è un circolo chiuso, elitario. Un’arte per prescelti, insomma, che ha tradito se stessa e la sua ragione popolare. Resta, dunque, da chiedersi: che fare per richiamare quel pubblico?
Pippo Delbono, perché per lei il tema dell’amore è così importante?
È una bella domanda. È importante per me e per tutti. È la vita. Il tema è forse la base di tutta la poesia, dell'arte e della vita stessa.
Lei cosa pensa invece di questo mondo che se lo sembra essere dimenticato?
Di fatto è più che altro un'aspirazione all'amore. L'amore non c'è: c’è la guerra, la povertà, l'epidemia, cose che sono contrarie all'amore. Allo stesso tempo penso che sia importante ripensare i nostri obiettivi.
L’arte può fare qualcosa in più in questo scenario?
Dovrebbe fare qualcosa, sì. Questo teatro si rifà molto ai classici, ma deve provare a essere più contemporaneo, con la guerra, la pace, l'amore e la povertà.
Il rischio è di essere retorici.
C'è il linguaggio. Io parlo indirettamente di guerra, non direttamente. Tutto ci sta, con il linguaggio. Nel linguaggio c’è l’opera d’arte.
Invece gli attori che ruolo hanno in questo?
Gli attori sono fondamentali. Cioè io mi alimento dalla mia storia. Loro mi portano altri punti di vista.
Cosa direbbe a chi le muove queste guerre: Joe Biden o Vladimir Putin?
Ma quanto pensate di andare avanti? Ancora quanto? Dieci anni, venti? E vale la pena? Tutto questo potere, il desiderio di vincere, di guerra…
Invece della premier Giorgia Meloni cosa pensa?
Io non è che la stimi molto, anche se poi i politici sono una categoria in discesa, sia a sinistra che a destra. Io non la conosco, però sembra una che ce la mette tutta. Io non farei neanche un’esaltazione della sinistra. Che si è lasciata sprofondare per problemi interni, gelosie e ha lasciato spazio a questa nuova destra.
Elly Schlein le piace?
È una donna in gamba, speriamo di vedere dei risultati. Però non abbiamo bisogno del solito compromesso. Si tratta di essere rivoluzionari, avere coraggio di sfondare. Le donne sono esse stesse un po’ rivoluzionarie. Per cultura e per tradizione.
La sinistra dovrebbe occuparsi di chi sta ai margini. Secondo lei c'è ancora posto per gli emarginati nel mondo di oggi?
Sì, ma certo che c’è posto. Io sono qui a Bologna e ci sono tantissimi barboni. Fa molto freddo e dovremmo occuparcene un po’ di più. Mi sembra che tutti passino un po’ indifferenti. Ma come è possibile? Invece coloro che vivono in quelle situazioni spesso sono più coscienti, più lucidi. Perché chi ha attraversato cose dure sviluppa una forma di saggezza.
E come si rimedia a questa indifferenza?
Non certo dando qualche spicciolo. Invece facendo i centri che accolgono i rifugiati, chi vive per strada. Dando da mangiare e un letto.
Invece il teatro cosa può fare?
Fare uno spettacolo con loro, io l’ho già fatto. Mi accompagno queste persone che vengono dalla strada, dal futuro, dal morto. Tante volte basta di una persona. C'è questo signore che è morto (Bobò, uno degli attori della compagnia nda), che è stato con me. E lui ha vissuto 40 anni in manicomio.
Il teatro è ancora un circolo chiuso o si sta aprendo al pubblico?
È abbastanza un discorso di élite, perché c’è gente esclusa a priori dal teatro. Il teatro è malato. È malato perché si autocita, è composto da gente colta e sta perdendo la sua funzione sociale. Bisogna che gli spettacoli vadano nella direzione di ciò che riguarda tutti gli esseri umani.