Inizia Riserva Indiana su RaiTre, la nuova striscia serale condotta da Stefano Massini. Un format semplice, semplicissimo, collaudato. Venti minuti a disposizione. Un cantante ospite, due canzoni, due domande, una storia raccontata dal conduttore. Intimità: colori caldi, tappeti persiani, toni pacati. Il primo ospite chiamato da Massini è stato Diodato. Impegno, bravura, dolcezza. Si è parlato di amore, di lavoro, di amori tossici e di morti sul lavoro. Tutto bene a livello di contenuti, anche se ormai l'aggettivo tossico è talmente abusato da causare l'orticaria. Ma il vero problema del programma è un altro. La retorica. Quella sorta di autocompiacimento evidente nel sapere di stare dicendo la cosa giusta, facendolo con cura e prudenza. Senza attaccare nessuno, nemmeno chi se lo merita, altrimenti poi si finisce a passare per cattivi, anche se così facendo non sembra più cattivo nessuno. Perché il dramma della retorica sulle tragedie è quello di annullarne la tragicità, e Stefano Massini esagera, con la retorica. Spiegamoci meglio. C'è un po' la sensazione di aver sbagliato orario, di stare già guardando Un Posto al Sole.
Non è uno scherzo: perché non basta toccare dei temi importanti per realizzare qualcosa di significativo. Anche la soap opera napoletana parla di argomenti socialmente rilevanti. Lo fa a modo suo, come d'altronde Massini, ma in entrambi i casi c'è uno scollamento tra il mezzo e il fine, tra il contenuto e il modo in cui se ne parla. Una cosa del genere ce la si può aspettare da una telenovela, ma non da un format come Riserva Indiana. Massini invita Diodato. Diodato canta, poi si siede al divanetto. Il conduttore introduce il tema centrale della microintervista. Ovviamente si parte da Taranto, dal rapporto della città con lo stabilimento Ilva. Eros e Tanathos. Amore e morte. Stefano Massini inizia parlando di amore. L'amore che inizia con le farfalle nello stomaco, con i fiori in mano, e che finisce con la violenza. Sul lavoro accade lo stesso, dice il conduttore di Riserva Indiana. All'inizio sono tutti contenti di aver trovato un lavoro. Ci si sente desiderati. La fabbrica ha bisogno del lavoratore, il lavoratore ha bisogno della fabbrica. Amore corrisposto, attrazione reciproca che diventa passione, questo il senso del discorso, che è condivisibile soltanto in parte, perché è tutta retorica.
Volendo fare una psicanalisi spicciola, da combattimento, si può dire che l'amore per il lavoro, soprattutto parlando di fabbrica, non è altro che puro istinto di sopravvivenza: ci si fa piacere il lavoro perché quello che interessa è lo stipendio. Il vero oggetto del piacere, poi, è quello che ci si potrà permettere con lo stipendio. Il godimento è nella spesa, non nel guadagno. Nell'aspettativa della spesa. A nessuno piace veramente lavorare. L'amore è un'altra cosa. Poi la fabbrica sfrutta l'operaio fin da subito. Tutto è chiaro dall'inizio. L'operaio non è cretino, lo sa, ma se lo fa piacere per sopravvivenza. Non ha tutti i torti Diodato, a dire che i tarantini pregavano per un contratto all'Ilva, e che l'Ilva era la fabbrica del riscatto, dell'industrializzazione del Sud. Ma andrebbe specificato che i padroni sapevano fin da subito che lo stabilimento avrebbe devastato la città, esattamente come accadde a Casale Monferrato con la fabbrica di Eternit, e non c'è nulla di romantico in tutto questo. Rabbia, casomai.
Massini racconta poi la storia, vera, di Francesco, un gruista di Taranto, morto sul lavoro perché non poteva abbandonare la sua postazione, a sessanta metri di altezza, nemmeno durante un uragano. Anche qui, il conduttore espone la vicenda seguendo i dettami dello storytelling, ricercando il pathos, l'aspetto emozionale. Usa il modellino di una Vespa, per far vedere che l'operaio andava a lavorare così. L'operaio era felice di aver trovato un lavoro. Poi l'azienda inizia a pressarlo, non vuole che scenda dalla gru. Riceve intimidazioni dai superiori, ha paura di andare in bagno, di abbandonare la postazione, e non lo fa nemmeno durante l'uragano che gli sarà fatale, facendo precipitare la gru. Ancora, la retorica che uccide la tragedia. Chiunque abbia lavorato in fabbrica sa che queste pressioni sono all'ordine del giorno. Pause negate, minacce, pranzi saltati, divieti, intimidazioni. C'è crisi: guai a rubare minuti alla produzione. Gli operai hanno paura anche a fare sciopero, non protestano più, i sindacati tacciono. Nel racconto romanzato di Stefano Massini sembra quasi che sia responsabilità dell'operaio: la scelta è sua. Compie l'atto eroico, si sacrifica per non far perdere tre euro all'azienda. Poi Diodato riattacca a cantare, mestamente. Non serve questo compatimento alla condizione degli operai. Serve la rabbia. Sarebbe stato bello se Diodato si fosse alzato e avesse detto che l'amore non c'entra un caz*o con il lavoro, e che per ogni operaio morto bisognerebbe eliminare un padrone, e che gli stipendi sono da fame. E come dice la sigla, forse, un posto al sole ancora, ci sarà.