Questione di tempo. Il lavoro è, soprattutto, questione di tempo. Minuti, ore, giorni dedicati a un’attività che, necessariamente, ne esclude delle altre. Il lavoro e il tempo sono il centro dello spettacolo Il Capitale. Un libro che ancora non abbiamo letto, portato in scena dai registi Enrico Baraldi e Nicola Borghesi, in scena al Teatro Arena del Sole di Bologna. Nicola, che è anche uno degli attori, ci ha detto che questo spettacolo vuole portare a teatro anche persone che a teatro non ci vanno tanto spesso. Vuole parlare agli operai. A recitare ci sono anche Dario Salvetti, Francesco Iorio, Mario Berardo Iacobelli e Tiziana De Biasio: tutti loro lavoravano allo stabilimento della Gkn di Campi Bisenzio prima del 9 luglio del 2021, quando il fondo Melrose decise di licenziare tutti e 422 i dipendenti. Gli è bastata una mail per farlo. La storia de Il Capitale mette al centro loro. Lo fa partendo dall’umiltà di chi si è dedicato a raccogliere informazioni, storie, racconti di chi, da quel giorno, ha occupato lo stabilimento. Durante l’intervista Nicola ed Enrico ci hanno detto che prima di andare in visita al Collettivo Gkn non erano mai stati in una fabbrica. Forse partire da qui, dalla consapevolezza di non essere “come loro”, era l’unico modo per portare in scena una storia simile. “Come a noi interessa il punto di vista degli operai forse a loro interessa il nostro”, ci ha detto Nicola Borghesi. Tiziana e gli altri non sono attori professionisti. Eppure, ammettono i registi “la gente rimane sorpresa dal loro talento”. Dei talenti, forse, lo erano anche prima di questo spettacolo, semplicemente non se n’erano accorti. L’esperienza del Collettivo Gkn ha dimostrato che un coordinamento di lotte diverse è possibile: fare gioco con battaglie climatiche e transfemministe è stato la condizione di riuscita dell’esperienza dell’occupazione. E le nuove generazioni saranno in grado di mantenere viva una dimensione di lotta collettiva come quella? “La mia sensazione è che invece ci sia dal basso, anche dal basso dal punto di vista generazionale, molta più capacità di interpretare la realtà attraverso un'ottica intersezionale, di convergenza”, ci dice Enrico. Poi l’intervista ha toccato altri temi, che partono dallo spettacolo e che tuttavia lo superano. Elly Schlein, “la migliore guida Pd degli ultimi tempi”, ma ugualmente incapace di far respirare quelle energie sopite della lotta di classe. L’intelligenza artificiale, un fatto positivo che rischia di essere l’ennesimo strumento al servizio del capitale. Poi la sinistra dei diritti civili che si “accontenta” di lavorare sul linguaggio, dimenticandosi che le merci, “le caz*o di merci”, qualcuno continua a produrle. Un mondo che di lavoro non riesce a parlare. Non vuole parlare. Un vaso di Pandora da scoperchiare a cui forse, a teatro, è più facile avvicinarsi.
Nicola Borghesi ed Enrico Baraldi, nel vostro spettacolo Il Capitale. Un libro che ancora non abbiamo letto dite che nemmeno voi eravate mai stati in una fabbrica, e probabilmente neanche il vostro pubblico. Ma allora non si crea un circolo chiuso di persone che si danno ragione?
Nicola: Può succedere, ma in realtà in molte repliche questo spettacolo attrae delle persone che a teatro non ci vanno tanto spesso, abbiamo avuto anche repliche piene di operai. In generale, il fatto che ci parliamo tra di noi, cioè della bolla, è purtroppo un po' assodato e spesso rimosso. Quando per esempio vedo degli spettacoli in cui vogliono convincermi che la mafia è sbagliata, Io come spettatore un po' mi risento, perché è come se me lo dovessi spiegare che la mafia è sbagliata. Siamo tutti d'accordo, no? È interessante avere l'onestà di partire dal dato, perché forse proprio partire dal dato crea le circostanze e l'occasione per superarlo. Infatti, proprio perché diciamo chi siamo e ci rivolgiamo mediamente a gente che in fabbrica non ci ha mai lavorato, in questo caso per la prima volta abbiamo avuto un pubblico invece anche fatto di persone che in fabbrica ci sono state. L'altra sera mi domandavo: ma agli operai cosa interessa del nostro punto di vista? E ho pensato: beh come a noi interessa il punto di vista degli operai forse a loro interessa il nostro. Credo che sia un circolo che in qualche modo tra di noi si è creato. Il punto è un altro: una volta che parliamo tra di noi che cosa farci di questa conversazione? Che possibilità di spostamento c'è all'interno di questo ceto medio riflessivo urbano che va a teatro? Lo spettacolo è questo nostro tentativo di fare un piccolo spostamento.
Nicola Vicidomini a MOW aveva detto che il teatro costa troppo e che questo è uno dei motivi per cui rimane un circolo chiuso, elitario. Siete d’accordo?
Enrico: È una questione veramente molto complicata. Intanto bisognerebbe capire di che teatro stiamo parlando. L’Arena del Sole di Bologna è un teatro nazionale, uno dei teatri nazionali che ha una programmazione, almeno negli ultimi otto anni, più attenta rispetto alla diversificazione quantomeno dei linguaggi, delle tematiche, dei pubblici. È vero, però, che il Ministero che eroga i contributi attraverso il Fondo unico per lo spettacolo dal vivo pone una serie di parametri e tra questi c'è il rispetto del repertorio, della tradizione classica del teatro che fa un punteggio, e anche parecchio. Per cui i teatri sono invitati, o costretti, a fare un certo tipo di spettacoli che hanno a che fare con la classicità del teatro. Però credo che ultimamente ci siano delle riflessioni molto interessanti, alcune provengono dall'estero. In Italia i tentativi sono un po' più timidi, ma andando a cercare bene esistono tantissimi gruppi che affrontano tematiche come il lavoro. Lo stesso collettivo di fabbrica Gkn ha organizzato a dicembre una o due giorni di teatro working class a Firenze: hanno portato in scena diverse esperienze che raccontavano storie diverse dall’Ilva di Taranto alla Piaggio, passando per diverse esperienze di gruppi più o meno professionisti, se questa cosa ha veramente senso, parlando del tipo di teatro di cui ci occupiamo noi.
Nicola: Io voglio solo dire che tipo qua all'Arena del Sole il teatro non costa troppo. Cioè qua i biglietti partono da 7 euro. Mediamente 10 euro. Si trovano delle promozioni. È vero che ci sono teatri in cui i biglietti sono molto costosi e questo è sicuramente un dato. Basta pensare che i teatri sono nel centro delle città e non in periferia mediamente. In generale mi sembra che non siamo gli unici, anche al di là del tema del lavoro, che è sicuramente un tema che aiuta, a fare operazioni di allargamento del pubblico, anzi. Negli scorsi anni si è molto ragionato sul tema dell'audience development, cioè su come ampliare le platee. Credo che in realtà in Italia cominciamo, a partire dal disastro che è stato il rapporto col pubblico degli ultimi decenni, a porci in maniera rigorosa il problema.
Enrico: Vorrei aggiungere una cosa.
Certo.
Enrico: Esiste una fortissima corrente teatrale di teatro contemporaneo che si occupa di diritti civili: dall'identità di genere a quella queer. Per essere più precisi sono performance che spesso sconfinano nel mondo del teatro, e che hanno molto a che fare con le arti visive, con un certo tipo di ambiente accademico o contro accademico, contro culturale italiano. Sui diritti sociali, forse, il discorso è un po' meno preciso.
In scena parlate, criticandoli, coloro che si accontentano della “schwa”, di lavorare esclusivamente sul linguaggio. Questo è un limite?
Nicola: Finalmente qualcuno fa questa domanda. E che lo fa nel modo giusto. Secondo me quel monologo è una parte piuttosto controversa. Abbiamo fatto tante repliche di questo spettacolo in “templi” del discorso Lgbtqi+, come il Custom Festival des Arts di Bruxelles. Io mi aspettavo che quella parte avrebbe attirato più attenzione. Quel pezzo lì dice: “io odio chi si è accontentato di linguaggi inclusivi, asterischi, ma solo e soltanto per non pensare che le merci, le caz*o di merci, le fa qualcuno”. La frase è strutturata correttamente.
Puoi spiegarti meglio?
Nicola: Il nostro spettacolo fa un discorso sul concetto di intersezionalità delle lotte e in particolare questo delegato a Tiziana, l'unica donna in scena, nonché una delle poche donne in quella fabbrica, che fa un percorso specifico: parte assumendo come centrale il dato di genere, quindi essere una donna in una fabbrica di uomini, e a un certo punto si accorge che questo dato, il suo interesse personale, viene superato dal dato di classe. Io personalmente credo in un'intersezionalità delle lotte che abbia come architrave la questione di classe, alla quale tutte le altre devono essere intersecate e devono aggiungersi in una maniera organica e armonica. Lotte femministe, Lgbtqi+, così come l'antirazzismo e le lotte per il clima sono sacrosante e centrali. Quando io vedo, però, presentarsi lotte che non abbiano l'attenzione sufficiente alla questione di classe mi sembra che ci stiamo perdendo dei pezzi.
Gkn è un'esperienza di come tante lotte possono poi fare rete. Secondo voi questa capacità nei giovani si è persa? Sono battaglie troppo isolate quelle che portano avanti?
Enrico: La mia sensazione è che invece ci sia dal basso, anche dal basso dal punto di vista generazionale, molta più capacità di interpretare la realtà attraverso un'ottica intersezionale, di convergenza. Molto di più di quanto non lo veda nella generazione, per esempio, di chi ha tra i 30 e i 40 anni, che è molto più isolata, arroccata nella difesa di alcuni spazi di potere, ognuno con la propria specifica lotta da portare avanti. Credo che i ragazzi e le ragazze tra i 15 e i 25 anni abbiano molto chiaro che oggi non c'è antirazzismo senza lotta contro il cambiamento climatico. La cosa più difficile da trovare è la consapevolezza della riproduzione della dominazione dell'uomo sull’uomo nelle dinamiche economiche. Il Gkn collettivo di fabbrica in qualche modo ha avuto la capacità di far riemergere questo dato e infatti i cortei degli studenti da Torino a Cosenza l'anno scorso cantavano: “Occupiamola”, l'inno della lotta del collettivo di fabbrica.
Nicola: Sì, Gkn è una delle battaglie più anti-settarie che ci siano state negli ultimi anni. La battaglia del collettivo di fabbrica ha avuto come punto proprio l’apertura, la volontà di trovare i punti in comune più che arroccarsi. Hanno messo a disposizione tutte le energie per creare un campo aperto nel quale confrontarsi, tant'è che ci sono stati momenti di convergenza tra il movimento transfemminista e il collettivo di fabbrica: un gruppo di operai metalmeccanici e un gruppo di persone transessuali che si incontrano e che discutono di lavoro. Il lavoro impatta sulla nostra vita e immediatamente tesse un sistema d'alleanze fino a un attimo prima inimmaginabili.
Dalle retrovie, in agguato, spunta Francesco Iorio, uno degli operai Gkn che partecipa allo spettacolo. Chiediamo: Elly Schlein essere uno dei cardini attorno a cui costruire queste reti? Iorio non ha dubbi: “No, te lo dico io… Il lavoro manca proprio da qualsiasi agenda politica, compresa quella del Pd”.
Nicola: Puoi mettere agli atti che Francesco Iorio ha detto di no. Personalmente non conosco, non ho approfondito. In realtà non ho ancora capito bene quale sia la proposta di Elly Schlein. Non mi pare che al momento stia evocando delle energie sopite della lotta di classe. Sicuramente è la leadership del Partito Democratico migliore degli ultimi anni. Tuttavia, non la sento parlare tutti i giorni della Gkn, come secondo me dovrebbe fare la segretaria del Partito Democratico. Per me questa è una cosa piuttosto grave. Il collettivo ha fatto questa cosa abbastanza straordinaria, tra le centomila che ha fatto, di scrivere una legge anti-localizzazione con un gruppo di giuristi solidali che il Partito Democratico in Parlamento non ha votato.
Quindi diciamo dei due poli, diritti civili e diritti sociali, manca dalla parte dei diritti sociali.
Nicola: sì, o comunque con un'ottica che non sia così tanto smaccatamente neoliberista.
Di nuovo, interviene Iorio.
Francesco: Non c'è l'argomento lavoro all'interno della politica, per quanto se ne possa discutere. Compreso il discorso di quelli che si definiscono di estrema sinistra, che sono di facciata, che si presentano, che arrivano, che dicono. Non è centrale l'argomento lavoro. Le lobby si sono impossessate di questo paese, meno se ne parla di lavoro e meglio è.
Già identificare il problema è un primo passo, no?
Francesco: Il problema è semplice, chi lo sa fa finta di non vederlo. Chi non lo sa lo scopre man mano che si scontra con questi muri di gomma. Basta che si scriva che sono stati assunte 800 mila persone: assunte come? Da chi? Come affrontano le condizioni di lavoro? Non interessa, sono semplicemente i numeri, i classici numeri che fanno parte del sistema. Noi abbiamo visto tante tecnologie, idee diverse di industria che non vengono nemmeno prese in considerazione.
Nicola: Credo di avere elaborato una risposta alla domanda: il Partito Democratico negli ultimi anni non mi sembra sia stato un partito amico dei lavoratori, a partire dal Jobs Act. Elly Schlein mi sembra che sia una novità positiva rispetto al corso del Partito Democratico, rispetto alla quale non ho sentito però segnali di discontinuità sufficienti da farmi pensare che quel partito abbia cambiato corso rispetto alle politiche schiettamente neoliberiste che ha portato avanti negli ultimi decenni.
Parlando di tecnologie collegandoci alla questione del tempo: l'intelligenza artificiale avrà un impatto enorme sul mondo del lavoro, può essere un'opportunità per riprendere in mano questo tempo?
Enrico: Sull'intelligenza artificiale è difficilissimo, quello che penso che Marx avrebbe detto è che sì, cioè la tecnica dovrebbe servirci per emanciparci man mano dal lavoro, ma tutto questo può avvenire solo in una collettivizzazione del lavoro e dell'intelligenza non tanto artificiale, ma quella che serve per organizzare il lavoro. Forse l'intelligenza artificiale potrebbe addirittura organizzare il lavoro per noi e dirci quelle due ore che lavoreremo a settimana alla fine di tutto quali saranno ma con gli strumenti economici attuali non credo che ci sia spazio.
Nicola: Io non sono un luddista, cioè per me le tecnologie sono tutte buone se impiegate nel modo giusto. L'intelligenza artificiale secondo me ha il merito, come quasi tutti i grossi eventi di cambiamento della storia recente, di mettere in luce le contraddizioni del modo di produzione in cui viviamo. Poi ci sono tutta una serie di problematiche specifiche relative all'intelligenza artificiale, come la diffusione di false notizie o la possibilità di scrivere cose standardizzate. Come direbbero alcune letture del Capitale, se una società in cui ci si mette d'accordo prima su che cosa occorre e si distribuisce armonicamente e razionalmente il lavoro, allora una tecnologia che toglie lavoro ha un impatto positivo. Il problema del modo di produzione capitalistico è che non ci si è messi d'accordo prima su che cosa occorre produrre e non si è deciso prima come produrlo per spendere il meno risorse possibile, meno lavoro umano, goderne tutti e lavorare il meno possibile.
Voi avete pensato a come usarla nel vostro lavoro?
Enrico: Non c'è ancora balenata questa idea. Il nostro collega ci fa le locandine, però.
Nicola: Noi abbiamo fatto ogni tanto degli esperimenti e sono sempre terribili. Quando non ci veniva un monologo, abbiamo provato con Chat Gpt e veniva fuori la pubblicità del mulino bianco...
Arrivano delle persone: sono i partecipanti del laboratorio teatrale. Alcuni sono appartenenti della compagnia portoghese che porta in scena Pendulum, altri sono lavoratori e lavoratrici. Non professionisti che, la sera stessa, reciteranno in una “prova aperta”. Hanno avuto solo due giorni per provare. Due sole ore. Enrico resta con loro, rimaniamo con Nicola.
Saremo diretti: vengono mai delle persone di destra ai vostri spettacoli? E come reagiscono?
Sì, vengono e reagiscono bene. I nostri spettacoli hanno il merito di non essere attesi, ma introducono una dialettica, un campo di forze e un conflitto irrisolto e forse irrisolvibile. Anche i miei amici, sinceri liberali, che sono più di destra di quelli che noi comunemente intendiamo come di destra, dicono che non ci avevano pensato. Ci sono persone che escono da questo spettacolo dicendo: certo che però ci vorrebbe una legge contro la delocalizzazione. Sinceri liberisti, tipo quelli del Partito Democratico… Dicono che il problema non è il capitalismo, il problema è la grande finanza internazionale, come se la grande finanza internazionale non fosse la conseguenza.
Come fa a piacergli uno spettacolo come il vostro, ma poi non essere d'accordo? Non è un cortocircuito?
Il nostro teatro ha una virtù che ci sono degli esseri umani in scena. Mentre io posso non condividere in maniera radicale delle idee un essere umano, come faccio a non condividerne l'esistenza? Se noi fossimo abbastanza bravi da scavare abbastanza nelle contraddizioni, nei dolori di ogni essere umano, sarebbe difficile non ritrovarsi l’un l’altro. Perché in fondo gli esseri umani si assomigliano da qualche parte, a seconda di quanto scavi. Certo, noi parliamo del Capitale di Karl Marx, una cosa che ha un taglio dichiarato, però dall'altra parte a chi di noi, anche di idee politiche completamente diverse dalle nostre, non è venuto da pensare, a un certo momento, il lavoro mi sta rubando la vita. Ecco, questo è di grande aiuto per stabilire un ponte più o meno con chiunque. Poi alla fine tu dirai la tua analisi e la mia non mi trovano d'accordo. I nostri spettacoli noi portiamo sempre in scena due punti di vista diversi. In questo caso non c'è il punto di vista di Melrose, ovviamente.
Manca il contraddittorio.
C’è ma spostato in una situazione più interna: il fallimento dell'esperienza del socialismo reale delle repubbliche socialiste sovietiche, in generale di tutte le esperienze comuniste, ha sicuramente a che fare con dei dati umani, psicologici. Noi siamo interessati a capire come l'aspetto umano della politica riverbera su quello politico, cioè come le due cose si tengono insieme. Era anche il tema di uno spettacolo precedente, Il giardino dei ciliegi di Anton Cechov, che ancora non aveva a che fare con la rivoluzione. Ma gli artisti secondo me arrivano sempre prima dei filosofi e anche della politica.
Neanche gli artisti si sanno interpretare da soli, quindi sono visionari in questo senso.
Ecco. Insomma, Cechov mette in scena un personaggio che si chiama Trofimov che è un protorivoluzionario, uno molto giovane che probabilmente poi, se non fosse un personaggio fittizio, ce lo ritroveremmo a prendere il Palazzo d'inverno. Trofimov è un personaggio un po' ridicolo, sproloquia molto sulla rivoluzione, sulle ingiustizie, su questo e su quell'altro e Liuba, protagonista aristocratica, quando Trofimov le rimprovera questa vita decadente, schifosa, spendacciona, morbosa, cosa peraltro vera, lei lo guarda e gli dice: tu non sai cos'è l'amore. Sembra suggerirci che la rivoluzione immaginata da Trofimov fallirà proprio per mancanza d'amore. Con amore credo lei intenda la comprensione delle miserie altrui, solidarietà prima di tutto umana anche verso un'aristocratica decaduta, anche verso la peggiore canaglia borghese. Ecco quel senso di pietà verso l’essere umano in quanto essere umano forse è stato proprio l'elemento che è mancato all'esperienza del socialismo reale. Il nostro spettacolo vuole suggerire proprio questa possibilità dell'utopia socialista come vera e totale realizzazione dell'essere. Poi c’è anche qualcosa che va oltre il testo.
Cioè?
Quelli che tu hai visto in scena, ardisco, in maniera quasi oggettiva, sono dei talenti, teatralmente parlando. Ci sono delle persone che sanno stare in scena e la gente molto spesso ci dice, ma incredibile, ma come fate a farli recitare così bene? Forse dentro le fabbriche, nei luoghi di lavoro più disparati ci sono probabilmente dei grandi talenti, delle persone che hanno tantissimo da dare al mondo in termini di invenzione, di creatività, di comunicazione, ma che non possono farlo perché il lavoro impedisce loro di andare fuori. È bastato aprire la porta, anzi, il cancello di una fabbrica e dentro ce n'erano ce n'erano tantissimi.
Alla fine dello spettacolo fate il pugno chiuso. Avete sempre avuto reazioni positive?
Voi siete molto preoccupati per la nostra incolumità, grazie. Chissà, secondo me quelli che non sono contenti non me lo vengono a dire. Ecco, secondo me chi vede delle persone che alzano il pugno dentro una sala, con quel tipo di energie, secondo me è più facile che si chieda: cosa mi sto perdendo? Poi c’è sicuramente chi vive tutto questo con grande distacco e magari se ne torna a casa dicendo che carini che ci provano però che illusi del caz*o. Ci sarà stato qualche spettatore abbastanza carogna da non farsi commuovere da tutto questo, però non me l'è mai venuto a dire.