La Milano di Sala come problema culinario. No, non sono smanie securitarie o facili bigottismi di vecchi cuochi (quando ancora i cuochi si chiamavano cuochi e non chef) che non sopportano più la loro Mediolanum, o Mesiolano. Nessun Jep Gambardella che ne accetti con ironia postmoderna il movimento e l’accelerazione continua. Sono dieci anni che Felice Lo Basso, cinque stelle Michelin, cinquantuno anni, lavora e vive a Milano. Era salito dalla Puglia, terra fino a poco tempo fa apparentemente agli antipodi della metropoli lombarda (e invece…). Ora se ne va a Lugano, speriamo con delle scarpe da tennis bianche e blu, e il motivo, raccontato al Corriere della Sera, è semplice: “Perché a Milano le cose non vanno bene come si racconta: il turismo dopo il Covid non si è più ripreso, le persone non hanno più soldi perché la città è troppo cara e gli stipendi sono troppo bassi. Io pago 10 mila euro di affitto al mese per 200 metri quadrati, senza i turisti non ci sto dentro. Mancano completamente i russi, che insieme ai cinesi sono gli unici ad avere capacità di spesa. I milanesi non escono più a cena. Qui non c’è futuro, la ristorazione è finita: funzionano solo i locali in cui il focus non è sulla cucina ma sulla musica, sui dj, sui drink, sulle belle ragazze...” Ma come, Milano la città dei record, dei nove milioni di “views” per le strade e in zona Duomo? “Ma bisogna vedere che turisti sono, e poi il picco si concentra in quattro mesi, quattro mesi e mezzo. Non siamo assolutamente ai livelli pre-pandemia. E in ogni caso la città non ha i servizi che dovrebbe avere per aiutare le imprese”.
Non sarà che forse il problema è il menù? 230 euro bevande escluse, fine dining in accezione rinascimentale nel suo (il fu) Felix Lo Basso Home&Restauran. Per Lo Basso no, convinto che i 22 “processi di cucina” (le portate) valgano la cifra. Il vero problema è che Milano sarebbe in crisi, non solo economica (e quindi abitativa), non solo in termini di sicurezza (la prima in Italia per numero di crimini secondo Il Sole 24 Ore), ma proprio esistenziale: “Qui è tutto finto, a partire dal racconto che si fa della città. La verità è che un grande chef oggi non verrebbe mai a Milano, qui funzionano molto di più i ristoranti etnici, di cibo dal mondo, che quelli italiani. E così si fa morire la nostra cucina”. Si vocifera, tra le altre cose, di un kebabbaro di sushi… Peccato che altri chef stellati non la pensino alla stessa maniera. A partire da Andrea Berton, allievo di Gualtiero Marchesi e recentemente ospite di Masterchef: “Milano? Mi ha dato molto e mi sta ancora dando molto, non sento il bisogno di andarmene. Certo, migliorare la sicurezza aiuterebbe: in questo momento non si può mai stare davvero tranquilli, non ci si sente liberi di muoversi con la massima serenità. Nella zona di Porta Nuova dove ho il ristorante io gira la security, però questa percezione di insicurezza esiste”. Si punta all’attenzione, dando ragione a Lo Basso, sulla cattiva gestione dei mezzi pubblici soprattutto dopo la mezzanotte. Ma sull’eterna finzione di una città che sta crescendo grazie al turismo e alle mode etniche, Berton tenta l’autocritica: “Aggiungo che sì, i ristoranti che fanno intrattenimento in questo momento hanno un appeal più forte degli stellati: tocca a noi aggiornarci, creare un’esperienza che sia competitiva”.
Sulla stessa linea anche Enrico Bartolini (due stelle Michelin): “È vero che a Milano ci sono troppi locali, ed è vero anche che talvolta assorbono la nostra clientela, ma non bisogna spaventarsi. Se i locali da intrattenimento hanno così tanto successo pur senza una grande attenzione alla parte gastronomica significa che anche noi, focalizzati sul cibo, dobbiamo invogliare i clienti a venire. Come? Con un bel servizio, con un’esperienza appagante e divertente. Io prendo spunto dagli altri, non critico”. Nessuno però nasconde che le critiche di Lo Basso siano in effetti fondate. Soprattutto Marco Ambrosino, che si è spostato da tre anni a Napoli (più vicino anche alla sua città natale, Procida): “Secono me il vero tema oggi è che la città è preda di quello che ha seminato negli anni. E cioè: nessuno ci investe più se non i grandi gruppi, che non hanno bisogno di un volto perché ragionano come brand. Da Big Mamma a Langosteria, funziona l’insegna, non il singolo cuoco. Diventa invece molto difficile per uno chef che ha un’idea, un sogno, farcela da solo: deve avere le spalle larghe, l’aiuto di soci o di investitori. E questo inevitabilmente cambia il risultato finale”.