Cosa c’entra Gianluca Vacchi con il kebab? Gianluca Vacchi, l’imprenditore e influencer multimilionario, ce lo ricordavamo in veste di scattante ballerino sui social, fra movenze coordinate e coreografie bizzarre, quando due anni fa era finito al centro di un grosso scandalo, dopo che una delle sue colf filippine lo aveva denunciato per maltrattamenti (fra cui, pare, anche l’obbligo a prendere parte a quegli osceni balletti). Lo ritroviamo anche oggi sui social, con oltre 20 milioni di follower su TikTok e altrettanti su Instagram, intento a ballare, fare vacanze, djset e saune ghiacciate per tenersi in forma, diventato padre di una bambina con la compagna 29enne Sharon Fonseca. E se vi dicessimo però, che fra i suoi numerosi affari e aziende, Gianluca Vacchi è diventato anche kebabbaro?
Nel 2021 Vacchi ha infatti inaugurato la sua catena di kebab, la Kebhouze, che oggi conta oltre 15 ristoranti in tutta Italia, fra Milano, Torino, Roma, Venezia, fino ad arrivare persino a Londra e Ibiza. A Milano, per esempio, il kebab di Vacchi si trova in ben 4 punti della città, fra cui il più centrale di tutti in Corso Buenos Aires, altezza piazzale Loreto, accanto a boutique e negozi, ma anche altri fast-food e catene come McDonald’s, Alice Pizza, Piadineria e simili. Negli anni la zona di piazzale Loreto si è riempita di ogni sorta di catene, franchising, negozi cinesi e kebabbari, per cui è curiosa la scelta di Vacchi di aprire anche lui un suo locale di kebab, fra tanta concorrenza.
L’origine del kebab non è un fatto certo al 100%, anche se a rivendicare il noto piatto sono soprattutto i mediorientali, fra cui i turchi. Il kebab esiste infatti in tante versioni, con nomi diversi in giro per il mondo, fra il kebab più “classico” il döner kebap degli immigrati turchi in Germania, la shaurma o shaverma di uzbeki, kazaki, arabi, ma anche ebrei, i cevapcici serbo-bosniaci (ma sempre di origine ottomana) e la pita giros greca (e guai a chiamarla piatto turco), che hanno in comune gli ingredienti e le preparazioni, dove un pane sottile come una piadina viene farcito con carne di montone o agnello arrostito a cottura lenta, accompagnata da cipolle e varie salse. I kebbabari oggi pullulano ovunque in tutte le grandi città europee e anche Milano non è da meno, dove nei venerdì e sabato notte, spesso e volentieri, la gioventù meneghina, abituata a un certo multiculturalismo, conclude le serate post Navigli e NoLo (North of Loreto, nome pop del quartiere gentrificato creato attorno a piazzale Loreto) con un bel kebab. Cos’ha in più il kebab di Vacchi? Siamo andati a scoprirlo proprio nel suo Kebhouze di corso Buenos Aires.
Il locale è piuttosto piccolo, arredato come un fast-food con scritte luminose alle pareti rosse e blu, dove spicca il logo di Kebhouze, un cilindro incoronato con due grossi occhi gialli e inquietanti. Tutti i tavoli sono vuoti, e a parte noi, nessuno entra a sedersi, ma i riders di Glovo e Deliveroo si alternano uno dopo l’altro. Accanto alle casse, dove due schermi mandano a ripetizione un video del logo animato che incanta fino a rincoglionire, varie scritte: “Enjoy! Enjoy!” e “Order, order”, tutto in inglese, probabilmente per dare uno spirito più internazionale, oltre a “Hey baby!” e “It’z kebab baby!” in pieno spirito Vacchi. In sottofondo musica rap americana, che fra video stroboscopici del logo, scritte in inglese sui muri e le t-shirts dei commessi che ricordano le canottiere dei giocatori di basket, si ha la sensazione di essere finiti in qualche periferia americana malfamata.
Osserviamo il menù: sono presenti ben 12 diverse versioni di kebab, oltre ai fuori menù, fra cui anche 3 versioni “planted”, a base vegetale. I kebab sono serviti come piatto singolo o come menù, accompagnati da patatine o anelli di cipolla fritti e bibita, in versione regular o large, proprio come dai kebabbari più tradizionali. Con tutta la scelta di ingredienti e tipi di carne, e la grafica un po’ confusionaria sul menù, nell’indecisione scegliamo il primo dell’elenco, un chicken up classico e un vegetarian planted con salsa algerina. L’idea del locale di Vacchi pare essere quella di un “kebab gourmet”, dove si sottolinea che la piadina è “artigianale” e dove soprattutto balzano subito all’occhio i prezzi, da 12 a 15 euro per un menù.
In breve tempo il nostro kebab è pronto. Il chicken up non è così male, grazie all’accompagnamento della salsa al limone, ma ha due problemi: il primo che è un po’ sciapo e insapore, il secondo è che, si sfalda. Si vede che manca la mano di un vero mediorientale esperto a chiudere la piadina. Le patatine di accompagnamento sono appena fatte, ma, per quanto non sia particolarmente difficile preparare delle patatine surgelate, hanno uno strano sapore e soprattutto, presentano dei “grumi” amidosi, forse perché un tantino vecchie. Gli anelli di cipolla sono invece nella norma, ma il peggio arriva con il kebab plant based dove la salsa “algerina” copre completamente qualsiasi sapore ed è riassumibile in una sola parola: disgusto. Dunque, non ci siamo.
Terminiamo dunque il nostro kebab con poco entusiasmo, anche visto che con due menù arriviamo a spendere quasi 30 euro e ci interroghiamo sul senso di tutto ciò. Probabilmente Vacchi è un gran furbo e, da bravo imprenditore, si è inserito in una nicchia, fingendo di proporre un piatto tradizionalmente economico, in versione gourmet. A noi, purtroppo, il suo kebab non ha convinto: troppo caro per niente, in un’atmosfera genericamente trash, quindi non ci torneremmo (oltre alla salsa algerina del kebab vegetale che ci ha causato, a posteriori, mal di stomaco e incubi). In conclusione, insomma, Gianluca Vacchi preferiamo vederlo solo su Instagram a fare i suoi balletti a ritmo reggaetton, e non a vendere kebab.