L'ossimoro più evidente? Alberto Sordi e milanesitá. Il detto popolare più in voga tra i coatti quiriti de Roma? “Cosa c'è de bello a Milano? Er treno per Roma”. Eh già, non si può dire che a Torpignattara e dintorni gli orizzonti siano così aperti ma tant'è. La Capitale può raggiungere livelli di degrado senza ritorno, ma un romano del popolo non si chiederà mai cosa esista dall'altra parte del confine laziale - anzi, svoltato il Colosseo - figuriamoci chiedersi cosa si mangi in un ristorante meneghino. È per questo che l'apertura di uno storico ristorante milanese proprio nella ex Galleria Colonna - ribattezzata Alberto Sordi nel 2009 e riaperta un mese fa con un ridimensionamento del numero dei negozi, da 27 a 15, con la scusa della salvaguardia del pianeta - può suscitare perplessità e ipotesi di un futuro incerto. E così, in tempi strani nei quali fioriscono e prosperano ristoranti romani alle falde della Madonnina, a Roma apre Stendhal, proprio nella succitata galleria, concepita nel 1911 e inaugurata dieci anni dopo, nel rispetto delle nostre consuete tempistiche. Lì, davanti a un altro caposaldo nordico, l’eccelso Iginio Massari e di fianco al nuovo Hamleys, da pochissimo si spaccia ossobuco con purè con un occhio alla porta, per vedere chi rinneghi in terra natìa la carbonara per una sera di luglio e si affacci con curiosità in questo locale di classe dai muri verde bottiglia.
Ebbene noi, tanto per evitare di fare pronostici troppo campati in aria, ci siamo stati, vagolando, come troppo spesso accade, per questa arcade in stile art nouveau adiacente alla Presidenza del Consiglio dei ministri, dai mosaici e dagli ampi spazi malinconicamente deserti. E siccome le cronache sincere dei vari luoghi dove abbiamo esercitato le fauci hanno risvegliato i malumori di qualche lettore, che avrebbe preferito consolatorie menzogne, noi scegliamo testardamente di insistere con i sinceri reportages, non per sopravvivere in questo mondo, ma per sana, idealista, presuntuosa voglia di cambiarlo. Da Stendhal siamo imboccati, sì. Abbiamo ricevuto un bel sorriso dal proprietario, seduto nei pressi dell'uscio, con una commensale dall'aria conosciuta. Il siculo Sergio, cameriere solerte che abbiamo erroneamente chiamato Salvatore per tutta la cena, ci ha accompagnato in una degustazione della milanesità tradizionale dall'inizio alla fine, tanto che poi, al nostro congedarsi deve aver ringraziato Cristo e la Madonna.
Abbiamo cominciato con un Martini Gin, ottimo con la sua zeste di limone, anche perché era difficile scegliere altro, in una carta totalmente dedicata a questo aromatico distillato al ginepro. “A Milano il gin va molto di moda ultimamente, tanto che le ginerie sono ovunque”. ...Ah, sì? Tra gli antipasti la scelta è caduta sui fiori di zucca con pesto e ricotta, piatto previsto anche nei ristoranti di Milano. I fiori della cara cucurbita sono il nettare degli dèi comunque si cucinino e questi sono stati cucinati bene, con il pesto che non copre i sapori. Certo non troveremo mai da nessuna parte, nemmeno in questo tempio del crossover Milano-Roma i veri fiori di zucca romani fatti come si fanno in casa, con la mozzarella e l'alice; scordateveli anche al ristorante, dove in genere arrivano precotti e surgelati, duri come sassi impregnati d'olio, gelati all'interno, dalla panatura mollicosa e salati; ‘na penitenza insomma. E reputatevi fortunati se a casa avete una mamma o una nonna che li acquista fragranti dal fruttarolo e li imbottisce di ingredienti di qualità per poi tuffarli in un olio buono e ve li serve bollenti nella carta del pane. La felicità? Proprio quella. Se siete tra gli eletti che ancora vivete questa esperienza e non lo sapete, fate indigestione di fiori di zucca; date retta a noi, perche poi li rimpiangerete.
A seguire il multitasking Sergio ci suggerisce i tradizionali mondeghili, polpettine di vitella e mortadella fritte dorate, nate per riciclare la carne avanzata in famiglia, sovrastate di una sapida salsa che con la mortazza lega alla perfezione. Il termine “mondeghili” deriva dallo spagnolo “albondeguila”, polpettina appunto, che a sua volta deriva dall’arabo “al-bunduq”, nocciola; ma ad insegnare la preparazione dei mondeghili ai milanesi furono gli spagnoli, durante i loro 150 anni di dominazione del Ducato di Milano. Ovviamente non possiamo mancare all’appuntamento con le specialità tradizionali, la costoletta alla milanese e l'ossobuco con il risotto giallo, ignorando le proposte romane del menù. In attesa di vedere questi capolavori davanti al nostro muso, ci impegniamo a dare un nome alla signora in compagnia del Patron di questo nuovo approdo gastronomico cittadino.
Lei è Francesca Senette, giornalista di Rete4 degli anni 2000. “Quella della mattina”, dicevano i più attenti estimatori all'epoca, ex conduttrice di Effetti Personali su La7, dal 2011 al 2013. Nel 2005 sposò l'imprenditore miliardario Marcello Forti, il nostro proprietario sorridente. Poco dopo è diventata – pare - anche sommelier. A un certo punto la Senette, interrompendo i discorsi sulle strategie di lancio del nuovo locale, pericolosamente in procinto di inserirsi nel tessuto irto di asperità dell’imprenditoria capitolina, ci indica seria e con la mano a paletta quasi ci imbruttisce: “ci sono i giornalisti!”, beccandoci nell'atto di immortalare una polpetta. Piuttosto gradiremmo un sorriso, ma non si può avere tutto dalla vita. Al tavolo accanto una coppia festeggia l'anniversario di matrimonio, qualcuno consegna un enorme mazzo di rose alla signora, che rivolge uno sguardo grato al marito che ha fatto il maschio, comportandosi a dovere, dedicando il giusto omaggio alla consorte. “Alla moglie più leale, intelligente, perfetta”, recita più o meno il biglietto. Noi commossi beviamo un altro sorso di gin, facendo cadere le chiavi di casa, la Louis Vuitton, gli occhiali rossi e il tovagliolo. In quel momento si palesa la cuccuma a due manici contenente il risotto arancione - sì sì, lo ricordavamo giallo - sormontato da un ossobuco con gremolada.
In un altro piatto giace una costoletta alla milanese abbastanza erta, e un mestolino di burro chiarificato bollente da versarci sopra (?). La pentola a due manici ci infastidisce non poco, ma decidiamo di pazientare e passare all'assaggio. L'ossobuco è elastico, a tratti nervoso, manca di spinta che esalti il sapore, mangiabile ma... noioso. il riso si presenta color arancio intenso, cremoso e al dente, carico di sapidità, bello ignorante insomma. Inevitabile il confronto con l'esperienza milanese che ci lasciò stupefatti per l'eleganza della presentazione in un candido piatto di porcellana, con il suo caratteristico giallo oro all'onda, dalla mantecatura al burro con la giusta punta di parmigiano, decorato da una foglia d'oro con l'altrettanto elegante retrogusto delicato di zafferano. Class is not water, Signori. Del pranzo meneghino in un qualsiasi locale della città lodammo anche la discrezione del personale, dal garbo sapiente di chi sa il fatto suo, porge i piatti della cucina con un sorriso, lasciando i commensali in un'estasi inaspettata di grazia e perfezione, data dallo stupore di un cestino di pane insolito e fragrante, dal candore della stoviglia, dalla sottile raffinatezza del vetro di un calice e da un menù milanese tradizionale servito con sciccheria.
Qui la costoletta, dal 2008 contrassegnata dalla Deco - Denominazione Comunale - e non la ‘cotoletta’, dal francese cotelette – si lascia mangiare, per la serenità del Conte Attems che la assaggiò proprio a Milano nell’ 800, per poi parlarne al Generale Radetzky del quale era aiutante fedele. Per carità, ma la scelta dello chef cade su quella alta e rosata dentro - davvero la costoletta di vitella deve essere rosa, quasi al sangue, per essere perfetta? - Ma Salvatore - pardon, il povero Sergio – dinanzi alla nostra perplessità di mangiare vitella cruda ne fa sbattere un'altra nella friggitrice immediatamente. Il mestolino pieno di grasso liquido? Alle coronarie ci teniamo e per noi è no. Il cocktail ci ha finiti, l'ossobuco ci ha battuti sul campo tre a zero, il risotto ce ricorda l'ignoranza della parmigiana casalinga d’infanzia e tra i fumi dell'alcool pare che ce voglia di “Ahó e mo’ basta, no? Arzete e vattene”. Noi ci proviamo, ma il maître ci placca con un “omaggio di tarte tatin della casa” che ci ritroviamo sul conto. Il giovine barman romano ci promette una sua creazione mentre imbocchiamo l’uscita. Di milanese abbiamo percepito qui soprattutto il conto, salato al punto giusto. Uscendo il nostro commensale ringrazia Albertone nostro, “perché non viviamo a Milano”. Noi, che ci auguriamo una Capitale sempre più rutilante e all’avanguardia, facciamo tanti auguri a Stendhal e ad un tocco di milanesità in più, qui da noi, che ci emancipi di modernità senza mai abbassare la guardia sulla trippa e il guanciale, non sia mai. Taac.