I colleghi non sono la tua famiglia. È così in ogni lavoro, e pure nello sport. Lo ha detto Julio Velasco nell’intervista di Francesco Costa per il podcast Wilson, ponendo la questione quasi in maniera paradossale. Un problema del tipo “nasce prima l’uovo o la gallina”. Eppure un modo per uscire dal circolo c’è: “Dopo una vittoria il 90% delle volte si dice: ‘Abbiamo vinto perché siamo una famiglia’. Ecco, io spero che la mia squadra non sia come una famiglia, perché le famiglie sono piene di casini, io mi accontento di una squadra”. E poi il nodo centrale: “Una squadra funziona perché è unita, o è unita perché funziona”. Ovviamente questa seconda via è quella giusta. Anche perché basta poco a mettere in crisi uno spogliatoio. Dopo un errore capita a tutti dare la colpa all’altro. Nella pallavolo il punto mancato o preso è colpa dell’alzatore, del palleggiatore, dello schiacciatore. Fondamentale è sgomberare il tavolo da ogni alibi, ognuno deve sapere cosa deve fare, aver chiaro il proprio ruolo all’interno del meccanismo. Lo avevamo scritto dopo la vittoria del Mondiale di questa estate: Velasco li capisce gli italiani, “l’Argentina è molto simile”. In Italia, in maniera analoga, si lavora spesso alla ricerca di scuse: “È un modo di difesa, è normale, ma il problema è quando diventa sistema. Con i collaboratori uso un’espressione così, come slogan: problema e soluzione”. Lo stesso tempo impiegato nell’analisi del problema andrebbe applicato alla ricerca della soluzione. E se un problema non ha soluzione, “perché perdiamo tempo?”. L’alibi è un blocco nell’apprendimento, “non è una questione morale”. “L’essere umano impara soprattutto per feedback”, quindi evitando critiche e osservazioni questo processo si inceppa, “subentrano le emozioni”, ed è lì che bisogna lavorare. Costa ricorda gli studi di Velasco, la sua formazione filosofica, e il fatto che in molti casi quegli insegnamenti dell’allenatore travalicano i confini dello sport. “Vieni trattato come un guru”. E Velasco: “Mi manca solo di fare uno di quei corsi… per carità di Dio”. Quel personaggio “è incontrollabile”, ha “vita propria”. Pragmatismo, anche qui: inutile cercare di evitarlo, quella maschera ormai l’hanno creata, ma “io me ne tengo alla larga”.
Rimanendo sul concetto di squadra: “Dopo una vittoria uno sente la fratellanza”, ma il difficile arriva in seconda battuta. “Dopo l’Europeo di calcio con Mancini”, prosegue Velasco, “tutti i giornalisti chiedevano ai giocatori: come mai in un momento così negativo siete riusciti a vincere?”. E la risposta degli interessati: “Il gruppo unito”. Eppure non è quello il punto: “Per vincere serve essere amici? No”. Le squadre sono un’altra cosa. Servono due elementi: “Uno: i ruoli. Nelle squadre i ruoli sono molto chiari. I ruoli sono diversi tra loro, uno attacca e uno difende di più”. E se quello funziona, “la squadra funziona”. Poi c’è un ulteriore elemento, più importante, che vale anche al di là dell’ambito sportivo: “I giocatori si aiutano non perché sono amici, non c’è un imperativo etico, ma perché è parte del gioco. Se uno non fa certe cose, come aiutare il compagno, gioca male”. In sostanza, il gioco di squadra serve a vincere. Tanto meglio se c’è tutto il resto, ma non è fondamentale. Costa mette sul tavolo un altro tema: i giovani. Con i giovani Velasco ha sempre lavorato molto. Costa chiede: non sono, quelli di oggi, più pessimisti? “Siamo noi che gli abbiamo detto che è tutto peggio”. Oltre i luoghi comuni, per esempio, la scuola in Italia non è così disastrosa come si crede. Anzi, “secondo me è ottima”. Capita talvolta di commettere un errore metodologico: il chiedere troppi miglioramenti in una volta. Bisognerebbe invece ragionare al contrario: “Tu devi migliorare questa cosa qua, se il resto rimane come prima non ne faccio un problema, ma questa la devi migliorare in poco tempo. Poco tempo è un mese, due settimane, non un anno. Siccome è una sola cosa, metto tutto lo sforzo in quella cosa lì”. Ogni individuo che migliora un aspetto del suo gioco significa, in termini collettivi, che la squadra ne ha migliorate molte. “Quella priorità io devo sceglierla non perché in astratto è la più importante, deve essere importante ma deve essere facilmente migliorabile”, per creare un meccanismo di fiducia, in cui il secondo passo sembra meno complesso del primo. Un circolo virtuoso.
In passato Velasco ha lavorato anche nel calcio, alla Lazio e all’Inter, “esperienze molto ben remunerate, va detto”. In quei contesti ha trovato maggiori difficoltà. Per esempio, “quando un giocatore è in declino, non è che (le società, ndr) non capiscono che è il momento di venderlo, ma sono i tifosi che sono affezionati”. Come si è trovato Velasco in Iran, già in mano al regime degli ayatollah? “Io ho vissuto in prima persona, in Argentina abbiamo organizzato il Mondiale sotto la dittatura militare”. E fa un passo oltre: “Credo sia sbagliato chiedere sempre allo sport di boicottare”, anche sfruttando, aggiunge Costa, “la pavidità della politica”. Infatti, in Iran, Velasco ha chiesto di “non aver nessun rapporto politico” (per questo, dopo la vittoria dei Giochi d’Asia, non si presentò da Ahmadinejad). I leader, invece? Velasco è l’emblema della guida efficace. Ma come fa? Qual è il suo “segreto”? Sempre il pragmatismo, “ma uno le cose deve saperle davvero”: “Se a uno dici: ‘Fai così che è meglio’, lui lo fa e va meglio, allora dice: ‘Ah, questo lo ascolto, perché funziona’”. Parlare in generale, senza cioè dare consigli con un riscontro pratico, può persino avere un effetto contrario e minare l’autorevolezza del leader. E certo, vanno bene le discussioni, gli spogliatoi “aperti” e il confronto. Ma i ruoli sono i ruoli, e il capo deve decidere. “Ci sono altre cose che invece comandiamo”, dice Velasco, “questo è così perché è così, perché io ho determinato che sia così, sennò passiamo tutto il giorno a parlare invece che a fare”. A volte, invece, la guida rischia di avvicinarsi troppo, e “e di essere come il papà che si mette a ballare alla festa della figlia quindicenne”. Qui sta “l’essenza della squadra”, “il rapporto tra i ruoli”. Altro errore: “Non è vero che in una squadra non ci sono interessi individuali”. Cosa intende qui Velasco? “Alcuni miei colleghi presentano lo spirito di squadra come un ambiente quasi ideale, dove non ci sono interessi individuali. La frase che usano molti allenatori di calcio: quando l’io diventa noi, allora ci siamo. L’io non diventa mai noi”. Semmai le cose funzionano “quando l’interesse collettivo, ossia il raggiungere l’obiettivo, è così importante che controlla gli interessi individuali, che comunque sussistono”. Quando si arriva alla vittoria, però, c’è un rischio: credere di aver trovato la verità. Ogni sport lo dimostra bene: vincere la seconda volta è sempre più difficile. Perché “non c’è niente di più effimero della vittoria”. Gli stessi metodi e ragionamenti che hanno portato al primo successo potrebbero invece non funzionare il momento successivo. Un atteggiamento, questo sì, anche politico: “Io mi considero una persona di sinistra, però mi trovo spesso a disagio con molte altre persone di sinistra, perché non parliamo mai di proporre cose che funzionino se non cose che sono giuste. Mettiamo la bandiera, ‘io sono buono’”. Anni fa, infatti, venne fortemente criticato per aver ammesso l'efficacia della comunicazione di Silvio Berlusconi (“un fuoriclasse”): “Se io non riconosco la forza dell’avversario commetto il primo errore. Per battere una squadra devo riconoscere i punti forti e i punti deboli”. Il che non vuol dire, chiaramente, che Velasco fosse d'accordo con Berlusconi. Da allenatore è diverso, dato che “devo ottenere vittorie, non consensi”. Prendere nota, quindi, indipendentemente dal proprio mestiere. “Il problema non è sbagliare, ma non avere feedback”. In chiusura Costa chiede: “Qual è il prossimo obiettivo?”. Per lui che ha vinto tutto, è complicato darsi nuovi stimoli, ma lo fa perché “è un privilegio lavorare con i giovani”, e poi: “io ho bisogno del gruppo, ma non i giocatori, dello staff… ho bisogno di confronto”.