Che Federico Bernardeschi avesse un certo feeling con la telecamera si era già capito. Lo ha detto lui stesso al Basment di Gianluca Gazzoli: “Sapevo che sarei diventato un meme”. I claim lanciati da Bernardeschi, infatti, sono tanti: “One, two, three”, “C’mon Tfc”. E poi quello definitivo: “Rischiare la giocata”. Più di un’idea: uno stile di vita. Sì, Federico Bernardeschi è anche un attore, al di là della jawline. E in quanto attore vive a metà tra la realtà e la finzione, sballottolato tra questi due estremi. Nel personaggio trova la sua verità, ma la sua maschera è insufficiente per coprire davvero ogni aspetto della sua personalità. Cosa è reale e cosa no è da decidere di volta in volta. Al Bsmt la nostra capacità di riconoscere il vero e il falso è messa alla prova. Si parla di insicurezze e psicanalisi. Da dove derivano le nostre fragilità, “ho avuto un trauma da bambino? Quello che siamo diventati è il frutto dei genitori e di ciò che tu hai fatto”. Ecco un punto fondamentale. Il trauma, una ferita aperta chissà quando e che non si è ancora rimarginata. Forse anche per questo Berna, magari inconsciamente, ha scelto la Mls. L’America (Bernardeschi ha giocato in Canada, ma la lega era Usa) è terra di traumi irrisolti, di religione e catechismo da una parte e di laicità e trasgressione dall’altra. Basta guardare al cinema, a Hollywood, ad Abel Ferrara e Martin Scorsese. Quest’ultimo ha spesso messo il dito nella carne viva della sua patria. In parte la comunità italiana rappresenta questo elemento, peraltro condiviso con un altro gigante come Francis Ford Coppola. Nel suo ultimo film, Killers of the Flower Moon, il nodo irrisolto è il genocidio dei nativi americani. Fare pace con quel passato è complicato. Vale per la comunità e per gli individui.
“Ci sta fare le cose ‘a personaggio’”, prosegue Berna, “poi credo che noi personaggi pubblici dovremmo esporci un po’ di più”. Ritorniamo lì, allo stesso paradosso. L’autoironia e la consapevolezza: il limite tar i due concetti non è facile da distinguere. L’attaccante del Bologna poi va sul pratico: “Io mi sono messo la gonna dodici anni fa”, dice, “dodici anni fa mi sono messo il pantagonna. Capirai cosa è successo”. E infine: “Che problema c’è? Se mi piace me la metto”. La voce si abbassa, le spalle in avanti, la testa si muove leggermente. Viene fuori l’attore. “Quante volte mi hanno detto che sono gay. E se fossi gay? Ma che caz*o me ne frega, secondo te non te lo dico. Anzi ne andrei”, perché in questo mondo “ognuno è libero di fare che caz*o vuole”. Si capisce che il momento è catartico per come cambia l’intonazione subito dopo. Quasi replicando il Travis Bickle di Taxi Driver: “Ce l’hai con me? Stai parlando con me?”. Berna ci crede in quello che dice, questo è certo. Uno dei pochi nel calcio moderno che non parla come un automa. In Italia vengono in mente Massimiliano Allegri (anche lui decisamente scenografico) e Daniele De Rossi. Pochi altri. L’ex Juve crede in quello che dice e nel suo personaggio. Se qualche manierismo viene ostentato pazienza. Ci sta fare le cose ‘a personaggio’”, aveva detto. La chiusura della conversazione è sulla fede. A Torino portava il “33” sulla schiena, come gli anni di Cristo, che porta tatuato anche sul costato; sul braccio il Cuore Immacolato di Maria. Bernardeschi è come l’America: una base italiana, traumi irrisolti. E come ogni grande attore, si trova sempre in bilico tra il suo personaggio e l’uomo reale.
