La vita dell’allenatore: “Quando va male è un dolore venato di analisi, quando va bene è un trionfo senza estasi”. La racconta così, Gigi Cagni, in modo anche poetico. Ora chiedete a Massimiliano Allegri, per dirne uno, se sia d’accordo con una massima simile. Probabilmente abbraccerebbe mister Cagni, ringraziandolo per tanta lucidità. Se vinci, vinci perché dicono che “con certa gente in campo vincevo anch’io”. Ma se perdi, eh… Se perdi cambia tutto. Errori di modulo, di tattica, di uno spogliatoio mal gestito e via discorrendo. Per Gigi Cagni, bresciano al tungsteno, è arrivato il momento di raccontarsi con “Rangèt” (Giulio Perrone editore), autobiografia in cui il mister, a tratti, suona come un equilibrato e stuzzicante incrocio fra Ettore Gotti Tedeschi e il Paolo Crepet degli anni autunnali. Perché in “Rangèt” il calcio (ce n’è tanto, ovviamente) è l’imbarcazione che trasporta la vita. Brescia come culla, il calcio come epicentro vivifico, il rapporto con giocatori, colleghi e addetti ai lavori come termometro di tempi che in cinquant’anni trascorsi fra campo e panchina sono cambiati più e più volte. In mezzo, l’esperienza che si fa saggezza e la consapevolezza che oggi più che mai, per crescere, bisognerebbe tornare anche ad arrangiarsi da sé. Ecco a voi, sempre schietto e sincero, Gigi Cagni.
“Rangèt” non è solo un benefico imperativo. È anche una delle parole che meglio sintetizza la sua filosofia di vita.
Ha avuto un valore enorme, per me. Quando ero giovane non la capivo fino in fondo, col tempo ho capito tutto. Sono cresciuto in un ambiente particolare, sempre in mezzo alla strada. Nel Carmine, il nostro quartiere, c'erano le vie degli artigiani e quelle delle mi*notte. Giravamo lì dentro tutto il giorno, tornati da scuola andavamo subito in strada. Appena sopra di noi c'era il castello sul monte Cidneo. Se non eravamo in strada, eravamo là.
E il pallone?
Lì giocavamo con qualsiasi cosa, ma il pallone era determinante. Attorno ai 7-8 anni sono andato all’Oratorio della pace, il più importante di Brescia, proprio in centro. Così ho iniziato a giocare nella Voluntas Pace.
Di recente ha raccontato che un giorno inorridì vedendo che un allenatore predicava la “costruzione dal basso” a una squadra di ragazzini che avevano grosso modo la stessa età. Cos’è successo al suo calcio?
Non è successo qualcosa solo al mio calcio. È successo qualcosa di grave, punto. Leggo che ci sono un milione e mezzo di ragazzi in Italia che non lavorano e non studiano. Tutti rompono le scatole per gli extracomunitari, ma se non ci fossero loro, in Italia, oggi la maggior parte delle attività sarebbero chiuse. Io a 14 anni ho smesso di andare a scuola e sono andato a lavorare. Non sono stato a casa. C’erano meno pericoli, certo. Io abitavo in città ma di auto ne giravano poche. Furgoncini e carretti, soprattutto. Però noi sapevamo “arrangiarci”.
E cioè?
Sulle questioni importanti i genitori ci seguivano, ma per il resto… Un esempio: a sei anni ero mancino. In prima elementare non riesco a fare le aste. Così il maestro mi chiama e mi chiede di porgergli la mano. Mi bacchetta costringendomi, per qualche giorno, a usare solo la destra finché non avrei preso in mano la penna con la destra. A casa non ho mai detto niente. Intendo dire: non rompevo le palle per qualsiasi cosa. Ero un disgraziato, mia madre ogni giorno mi tirava dietro di tutto. Tornavo a casa quando tramontava il sole, mica perché me lo diceva l’orologio (che non avevo). E una volta a casa di certo non andavo a raccontare “le mie cose” ai miei genitori stanchi morti.
Un altro mondo.
Non è che prima fosse tutto giusto, ma ora si sta esagerando. Lo smartphone a bambini di 7-10 anni? Ma scherziamo?
La riporto sul terreno verde. Più ci immergiamo nel calcio moderno e più ritengo che quello che lei combinò col Piacenza sia stata pura fantascienza…
Credo di aver fatto due imprese che mi auguro, un giorno, possano essere replicate. Il Piacenza in Serie A e l’Empoli in Coppa Uefa. Di questo sono orgoglioso, ma oggi ho paura che… Non c’è meritocrazia. Ma l’avete visto Gianni Infantino, presidente della Fifa, che consegna a Donald Trump un fantomatico Premio per la pace? Di cosa stiamo parlando? I nostri politici, poi. Dicono balle in continuazione, non rispettano la gente che vota. Il cittadino non viene rispettato da nessuno.
Anche le parole, per lei, hanno avuto una bella responsabilità nel mandare le cose in vacca. Oggi si parla di “braccetti”…
La televisione ha cambiato tutto. Perché noi andiamo dietro a quello che conviene agli altri. Alla televisione conveniva così. Ai cronisti tv e alla televisione, per fare show. E così sono arrivati quelli che hanno letteralmente pubblicizzato il tiki-taka. Il calcio, purtroppo, in tutto questo, non c’entra niente. La partita è diventata secondaria. Lo schermo ha vinto, il calcio ha perso. La tattica ha vinto, la tecnica individuale ha perso. Hanno vinto i numeri, che ormai ci servono a ogni ora del giorno e della notte. Poi vedi gente in Serie A che non è capace di stoppare un pallone o non possiede la minima visione di gioco. Nessuno dribbla più, la fantasia è in pensione.
Cresciuto con Baggio, Del Piero, Totti, Mancini, Cassano, non posso che confermare…
Ecco, dove sono oggi giocatori simili? Si è compiuto un delitto perfetto che ha penalizzato soprattutto il nostro calcio. Eravamo famosi (e temuti) per la fantasia e abbiamo accettato un cambiamento, solo in parte fisiologico, che ci ha penalizzati. Quelli che hanno messo piede a Coverciano negli ultimi 15 anni hanno rovinato tutto, perché hanno sfornato allenatori-macchine esasperando la tattica. Pensando che le partite si vincono grazie alla tattica, la nostra Nazionale, ormai da tempo, perde le partite che contano. Ogni allenatore dovrebbe innanzitutto far rendere al meglio ogni giocatore per le qualità che ha. Poi la tattica viene da sola. E invece hanno messo la tattica davanti a tutto. Thiago Motta, alla Juventus, credeva di poter vincere le partite da solo. La sua presunzione è stata quella di credere, sull’onda di ciò che di buono aveva fatto a Bologna, di poter cambiare ruolo ai giocatori incardinandoli sempre nello stesso schema di riferimento. E ha fallito. Senza equivoci.
Citava la crisi ormai “sistemica” della nostra Nazionale. Ci qualificheremo ai prossimi Mondiali?
Oggi i nostri tecnici della Nazionale non hanno dubbi su chi convocare, prima fare le convocazioni era un mal di testa. I giocatori sono quelli lì. Abbiamo dovuto naturalizzare un argentino per avere una punta. E così torniamo alla meritocrazia che non c’è più (da nessuna parte, badate, mica solo nel calcio). La priorità dovrebbe essere il nostro calcio, la bellezza e l’efficacia del nostro calcio. Mica inventarsi i “braccetti”.
Sarebbe bello capire chi sia stato a coniare questo termine. Ci ho messo un anno buono a capire cosa diavolo si intendesse…
Chi l’abbia inventato non lo so, ma so che Pierluigi Pardo deve sempre fare sfoggio dell’inglese. Perché?
Pensando a ciò che sta accadendo ora a Firenze… Esistono davvero le cosiddette piazze difficili?
Certo. E oggi è più vero di prima perché mancano i giocatori di personalità che non tremano davanti alla folla. Ho giocato contro Mazzola e Rivera, ma non ho mai avuto paura. Ho esordito in A marcando Domenghini. Ma nessuno di noi aveva paura. Oggi ci sono troppi giocatori senza personalità, infatti il dramma è che il leader è l'allenatore. Allegri è stato geniale. Per far rinascere il Milan ha comprato un giocatore di 40 anni. L’Inter se non ci sono Calhanoglu o Mkhitaryan fatica a trovare un leader. Acerbi, dietro, ne ha 36. Oggi l'allenatore deve aspettare la fine del primo tempo per cambiare le cose perché in campo non c'è nessuno che capisce un ca**o. Ai miei tempi, e anche più avanti, c'erano tre o quattro leader per squadra. Ogni ruolo ne aveva uno. Ma questo capita anche in altri campi. Nell’industria, per dire, dove figli di grandi imprenditori hanno fatto fallire le loro società.
Questa Fiorentina si salva?
Me lo chiedono in tanti. Mi limito a dire che la situazione è complessa. I giocatori, però, hanno le capacità tecniche per saltarne fuori, su questo non ho dubbi.
Le piazze le abbiamo messe a posto. Ma lo spogliatoio? Può essere davvero così difficile da gestire?
Sì, soprattutto se non ti imponi e non dai delle regole. Un mio caro amico, un team manager, di recente mi ha detto: “Gigi, oggi neppure tu riusciresti a gestirlo, perché la prima cosa che i giocatori fanno appena escono sudati fradici dal campo è prendere in mano lo smartphone. Vanno subito sui social per vedere cosa hanno detto di loro”. Lo spogliatoio deve rimanere un luogo sacro. E fuori ci dev’essere una condotta chiara, votata anche al sacrificio: quando e cosa mangi, quando fai sesso, quando vai a letto alla sera e via dicendo. Ma ormai non si insegna più nulla a nessuno. Quando entrai nelle giovanili del Brescia non mi insegnarono a toccare il pallone, ma a essere uomo. L’alimentazione, il riposo dopo l'allenamento. Rivelo un segreto che ormai non è più tale: Antonio Conte è l'unico allenatore in Italia che non dà il programma della settimana ai giocatori. Dice tutto giorno per giorno, perché sennò si organizzano con la moglie, la zia, l'amante e chi vuoi tu. Vedi, se finito l'allenamento, non vai a casa a riposarti, io ti rompo le palle. Noi stavamo nello spogliatoio, andavamo un'ora prima e venivamo via un'ora dopo. Negli ultimi tempi in cui ho allenato rientravo dal campo e non trovavo più nessuno. A Piacenza questo non accadeva. E infatti il gruppo, per anni, ha fatto risultati.
Rileggendo la sua biografia calcistica individua una stagione (o una fase della sua carriera) carica di rimpianti?
Ho sbagliato due volte. La prima quando sono venuto via da Piacenza per restare in Serie A col Verona. Poi siamo retrocessi, per un solo punto, per colpa della società, che ci ha fatto fare metà campionato senza un attaccante di ruolo. Per orgoglio, l’anno dopo, non sono tornato a Piacenza perché il Verona voleva che rimanessi per vincere il campionato in B. L'altro mio grande errore l’ho commesso quando sono andato in Uefa. I “vecchi” della squadra mi chiesero di poter giocare in Europa, ma io puntai sui giovani. Fummo eliminati. Ero convinto che dovessimo pensare più al campionato che alla Coppa, e ancora oggi ripenso a quella legittima richiesta dei senatori: mister, ci faccia giocare, quando rivedremo mai l’Europa? Gli dissi di no. Che testa di…