Si giocherà Italia-Israele a Udine, nonostante le contestazioni, arrivate anche alla Mostra del cinema di Venezia ed espresse nel corteo al Lido. E si giocherà anche la partita d’andata, a Debrecen in Ungheria, perché è un appuntamento sportivamente fondamentale: l’Italia di Gennaro Gattuso deve vincere per coltivare la speranza di qualificarsi al prossimo Mondiale. Inevitabile, però, che questo incontro abbia un valore extracalcistico. Troppo potente e drammatica la cronaca per parlare semplicemente di sport. Da alcune parti della società e forze politiche la richiesta è chiara: serve boicottare la partita, il genocidio che sta commettendo Israele ai danni della popolazione palestinese legittima l’esclusione della squadra nazionale dalle competizioni, analogamente a quanto successo con la Russia. Dall’altra parte, invece, si dice: lo sport ha il compito di unire, non di dividere, dunque gli atleti israeliani devono essere accolti a Udine, e ovviamente a Debrecen l’Italia ci deve andare. Di questo parere è anche Giuseppe Pastore, giornalista e voce di Cronache di spogliatoio. Pur sposando il termine genocidio per descrivere l’azione israeliana su Gaza, Pastore sottolinea come non si possa chiedere sempre e solo allo sport di fare qualcosa al posto della politica e delle istituzioni. Sono i leader e i rappresentati a doversi schierare, risolvere concretamente situazioni drammatiche come quella a Gaza. “Va bene squalificare Israele”, dice Pastore, “ma non dev’essere una decisione che prende da sola una Nazionale di calcio”, né tantomeno i singoli ct: “Non può l’Italia promuovere boicottaggi”. Serve, quindi, seguendo il ragionamento, un’azione coordinata, collettiva e corale. Ma davvero questo è l’unico modo per agire politicamente? O meglio: è questa la premessa necessaria alla mobilitazione?
“Siamo comunque all’interno di una comunità. Dobbiamo accettare le regole della comunità dello sport. Lo sport non può scavalcare le Nazioni Unite”, prosegue Pastore. È evidente che se ci fossero largo consenso e scelte condivise da più federazioni calcistiche allora un eventuale boicottaggio avrebbe un peso maggiore. Sia politicamente che a livello di immagine. Il mondo del calcio si ritroverebbe a doversi schierare. Insomma, la questione non potrebbe più essere evitata. Ciò su cui non concordiamo con Pastore, però, è come questo processo possa avere inizio. Stiamo parlando di una Nazionale – in questo caso quella italiana – che sceglierebbe di non giocare una partita per lei fondamentale. Come può questo non innescare quello stesso movimento di cui parla Pastore? Perché una singola Federazione dovrebbe rinunciare a un’azione, inizialmente isolata, per aprire la strada ad altre realtà, dando loro l’opportunità di seguirla e di sfruttare quello spazio nuovo? Certo sarebbe un gesto forte, che avrebbe conseguenze pesanti. La presenza degli azzurri al Mondiale sarebbe compromessa. Un’azione dal basso, forse una causa persa, ma non per questo meno degna. Sono tante le mobilitazioni fatte dalle minoranze, contro il consenso generale e contro quelle regole comunemente accettate da istituzioni e organismi sovranazionali. Sì, anche quelle norme possono essere contestate. Ovviamente in questo caso si tratterebbe di un boicottaggio, azione non violenta e legittima. “Si chiede sempre al calcio”, prosegue Pastore, “di prendere decisioni un po’ populiste”, per “nascondere la vigliaccheria o la furbizia o la non voglia di chi invece deve prendere queste decisioni”. “Non diamo questo peso sempre allo sport”. Pastore ha ragione: sicuramente è facile, per la politica, lasciare in mano agli atleti una questione così bruciante. Ed è vero che parlare in maniera insistente (e pedante) di Italia-Israele potrebbe distrarre l’opinione pubblica dai veri obiettivi della protesta e dai veri interlocutori a cui invece servirebbe rivolgersi – la politica e le istituzioni, appunto. Ma è altrettanto vero che una cosa non esclude necessariamente l’altra. Si possono tenere insieme la parte simbolica (lo sport) e quella pragmatica (la richiesta di sanzioni e un’azione concreta contro Israele da parte della comunità internazionale). Saranno gli interpreti di queste mobilitazioni a dover coniugare efficacemente – e politicamente – queste due dimensioni. Sarebbe presuntuoso pensare di sostituirsi a Gattuso, al suo staff e ai calciatori, dire “cosa avremmo fatto noi” al loro posto. La decisione l’hanno già presa ed è legittima, seppur non condivisibile a tutti i costi. Quello di cui stiamo parlando è la possibilità di fare altrimenti. E anche questa è politica.

