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La break dance a Parigi 2024 è una buffonata e un tradimento: come fa una danza che rompe le regole a diventare una disciplina sportiva alle Olimpiadi?

  • di Gianni Miraglia Gianni Miraglia

1 agosto 2024

La break dance a Parigi 2024 è una buffonata e un tradimento: come fa una danza che rompe le regole a diventare una disciplina sportiva alle Olimpiadi?
Come è cominciata la storia della break dance? Con le coreografie di chi vive nel Bronx, seguendo stili di vita non propriamente da atleti. Perché, dunque, la break è diventato uno sport olimpico? Può davvero una danza che rompe le regole diventare una “disciplina”, per giunta olimpica? Ecco perché la sua presenza alle Olimpiadi di Parigi 2024 è una buffonata e un tradimento

di Gianni Miraglia Gianni Miraglia

Don’t break my heart. Salviamo la break dance dall’esordio olimpico, dagli orrendi tessuti tecnici e dai brand che pataccano ogni nuova deriva olimpica. Per non parlare della grottesca prosopopea inclusiva con cui si affiliano alla kermesse pentacerchiata i cosiddetti nuovi sport. E già in questa parola - sport - si coglie la contraddizione che, nel nome del marketing e delle vendite, va a uccidere e banalizzare il fuoco di una pratica già gloriosa nella sua marginalità fondativa che non teneva conto di canoni atletici: i protagonisti della break erano gli emarginati dai corpi imperfetti, provati dagli stenti chimici e dalle coltellate. Nulla della fisicità prestazionale e sana dei partecipanti ai giochi olimpici. E quindi, nel nome della tanto millantata inclusività, si vanno a escludere tipologie di esseri umani che oggi non potrebbero cimentarsi, come invece fecero gli iniziatori del Bronx nei primi anni Settanta. B-boy e b-girl afroamericani e latini che - nonostante la panza, l’alcol e le drog*e - davano vita alle dinoccolate e ritmiche coreografie umane del nascente hip hop e dell’Mcing, oltre che del writing, che avrebbero rivoluzionato tanta arte e musica contemporanea. Si trattava di feste in case diroccate e contest tra vicinati del ghetto, in cui si esibivano fantasia e immaginazione e non il canone, implicito di ogni disciplina sportiva che crea regole ferree e gabbie penalizzanti. La break dance, come anche lo skate - incluso nella pappatoia della retorica olimpica già dalla scorsa edizione di Tokyo - i cui iniziati erano dei disadattati ossigenati, scesi dalle suburbie, in preda anche loro a sostanze psicotrope, che prendevano possesso abusivo delle piscine vuote degli egemoni in vacanza, per dare vita a quei trick che ora vediamo banalizzare anche negli skatepark di questa edizione, con tanto di musica rap e punk hardcore, ma tenuta bassa, per non disturbare giudici, ministri, il pubblico borghese e gli immancabili product manager dei brand sponsor che niente sanno di ciò che traducono in vendite e simultanea dissacrazione.

La break dance può essere disciplina olimpica?
La break dance può essere disciplina olimpica?
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E allora che tolgano dal doping almeno la can*abis che già un comitato si distinse nel 1998, per moralismo e ipocrisia, ritirando la medaglia d’oro allo snowboarder canadese Ross Rebagliati, ignorando dunque che quel rito inalato via joint, fosse intrinseco negli usi di chi sale su una qualsiasi tavola, con o senza ruote. Break dance e skate siano dunque lasciati liberi, come forma di arte urbana e non mera competizione tra giovanotti gonfi da palestra, integratori e allenatori. Free style nell’accezione letterale del termine, ovvero libertà e non la guerra sottintesa, implicita nell’agonismo olimpico. Non a caso, il rito delle medaglie è pura liturgia darwinista: che vinca il migliore. E poi quelle bandiere dagli stemmi imperiali e gli inni nazionali, zeppi di esortazioni alla morte nel nome del re o della patria. Non c’entrano assolutamente niente con passioni nate nell’estrema periferia dell’Occidente, tra gente di serie b, emarginati ed esclusi fin dalla nascita. La break dance non è uno sport e nessun politico è mai stato un b-boy. Non se ne può più di assistere alle goffaggini mediatiche dei carampani dell’informazione dalla memoria corta. De Coubertin, il fondatore delle moderne olimpiadi, da lui sordidamente posizionate in quel lemma paraculo ed egualitario: “l’importante è partecipare” che in realtà era l’esatto contrario. Il barone francese, moderno manager, fiutava già gli interessi di un gioco che faceva gola a molti e flirtava col suo amico di penna Adolf Hitler - poco prima dell’edizione del 1936 a Berlino - sdoganando anche certo razzismo scientifico in voga in quell’Europa che ancora sfruttava e discriminava colonie e domini extra-territoriali. Evviva, comunque, la favola olimpica a cui assistiamo ogni notte e con cui ci appisoliamo, evviva soprattutto quei grandissimi atleti, vincitori e non; evviva la break, nuovo sport olimpico, che il prossimo venerdì stupirà, premierà e scatenerà la logorrea e le gag paesane degli ospiti in studio. Ma ricordiamoci che, in un tempo lontano, la break era pura poesia immaginifica, dal cuore di un branco di anti-eroi, senza luci, senza podio e senza oro.

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