Rafa Nadal lo dice con la lucidità di chi ha passato una vita a combattere in campo e ora deve fare i conti con una verità più grande di lui. “Dopo le Olimpiadi mi sono detto: ‘Basta, è finita’. Ho capito che non sarei mai più tornato al mio livello, continuare non aveva più senso”. Lo spagnolo si confessa a Served, il podcast di Andy Roddick, e lo fa raccontando il peso degli infortuni, la fatica di accettare la fine e il senso di chiusura che gli ha dato il ritiro. D’altronde, la sua storia non è quella di un semplice campione. Nadal ha costruito un’epopea, un dominio sulla terra rossa che ha riscritto la storia del tennis. 14 Roland Garros, 22 Slam, 92 titoli. “Quando ho vinto il mio primo torneo sul duro, ho fatto capire al mondo che non ero solo un giocatore da terra battuta. Ma il mio fisico non mi permetteva di competere con continuità su certe superfici. Giocare sull’erba mi è sempre piaciuto più di quanto si possa immaginare, ma è una superficie che non lascia spazio alle mezze misure: devi attaccare sempre”. Lo dice con il rimpianto di chi ha sempre amato il tennis nella sua totalità, ma sapeva che per lui l’erba e il cemento sarebbero stati sempre una sfida proibitiva.

Il crollo arriva nel 2023, con l’ennesimo infortunio all’ileopsoas sinistro in Australia. “Da lì è iniziato tutto. Ho provato a rientrare, ma fisicamente mi sentivo limitato. Dopo cinque o sei mesi di tentativi ho capito che non sarei mai più stato quello di prima”. Il momento della resa è arrivato dopo le Olimpiadi di Parigi, un evento che ha segnato il suo addio al tennis giocato. “Ricevere la torcia da Zidane di fronte alla Torre Eiffel è stato emozionante. Sono scoppiato a piangere, ho visto la mia carriera scorrere davanti agli occhi”. Sì, esattamente quelle Olimpiadi che hanno visto il trionfo di Nole, che però poi, come ci ha detto Bertolucci, non si è più ripreso. Infatti, quando si parla di Nadal, è impossibile non citare le sfide leggendarie che lo hanno reso un’icona. Il rapporto con Novak Djokovic è stato di puro rispetto, ma anche di autentica sofferenza in campo: “Giocare contro di lui era un’altra storia. Dovevi essere perfetto per tantissimo tempo. La chiave era mantenere il gioco al centro, evitando di dargli troppo angolo. In termini di controllo della palla, è stato il miglior giocatore che abbia mai visto”.

Eppure, se c’è una rivalità che ha appassionato il mondo, è stata quella con Roger Federer. “Ogni nostro incontro era una partita a scacchi. Sapevamo esattamente cosa avremmo fatto l’uno contro l’altro. La strategia era sempre chiara: puntare costantemente sul suo rovescio”. Ma il Federer del 2017, quello rinato, è stato il giocatore più forte che Nadal abbia mai affrontato sulle superfici veloci. “Aggressivo, rapido, con un servizio praticamente illeggibile”, così lo definisce. Ora Nadal si guarda intorno e vede un tennis diverso, un’era in transizione. Djokovic è rimasto l’ultimo superstite dei Big Three, ma il passaggio di testimone è inevitabile: “Abbiamo dimostrato che si può essere competitivi e mantenere un ottimo rapporto, anche in una rivalità durissima. Questo valore lo abbiamo trasmesso alle nuove generazioni”.
E in cima alla lista ci sono Alcaraz e Sinner: “Carlos è un ragazzo d’oro, ha un’energia incredibile. Jannik è straordinario: il modo in cui ha affrontato l’ultimo anno è stato incredibile. Sono sicuro che le nuove generazioni aiuteranno il nostro sport a crescere e a coinvolgere sempre più tifosi". Un’investitura che pesa, perché arriva da uno che di pressione e aspettative se ne intende. Nadal se ne va, ma il tennis non si ferma. L’era del maiorchino si chiude qui, ma il testimone è stato passato e il prossimo capitolo è già iniziato.