Il problema dell’Inter, si dice, è mentale. Gli strascichi del dramma sportivo della scorsa stagione si sentono e si vedono. Questo chiaramente ha anche delle ricadute tecniche, alcuni giocatori non sembrano più ai livelli che avevano abituato. Yann Sommer è tra i più criticati, specie dopo la sconfitta contro la Juventus allo Stadium e l’imperfezione sul quarto gol di Adzic. Già l’anno scorso, a dire il vero, si era ipotizzato una progressiva introduzione di Joseph Martinez alla titolarità. Così non è stato e il portiere acquistato dal Genoa per oltre 13 milioni – che sono tanti – è rimasto perlopiù in panchina, utilizzato in qualche uscita in Coppa Italia o in gare di Serie A contro qualche piccola. La partita contro il Barcellona e i due interventi leggendari su Lamine Yamal avevano scacciato ogni dubbio sulla condizione di Sommer. Questa settimana ricomincia la Champions League, mercoledì l’Inter va ad Amsterdam per incontrare l’Ajax, e Martinez potrebbe giocare. Il suo ruolo potrebbe man mano diventare più centrale, analogamente a quanto accaduto con Andre Onana l’anno della prima finale di Simone Inzaghi all’Inter. Proprio in Champions il camerunense si guadagnò lo spazio con grandi prestazioni, fino a diventare il preferito dell’allenatore e lasciando Samir Handanovic in panchina. Limitare il discorso al portiere per descrivere quello che succede ai nerazzurri non basta. I problemi sono tanti, le prestazioni sottotono numerose. Alcuni, poi, da diversi mesi, anche prima del disastro di Monaco, stanno esprimendo un gioco ben inferiore alle loro possibilità.

L’esempio più chiaro è Federico Dimarco, eccellente nel girone d’andata della scorsa Serie A, mai completamente recuperato nella seconda parte di stagione. Carlos Augusto è stato decisivo nei momenti che contavano, su tutte la trasferta all’Allianz Arena contro il Bayern Monaco, e per forma fisica e solidità nelle due fasi è parso più affidabile dell’italiano. Altro caso: Nicolò Barella. Leader in mezzo al campo e nello spogliatoio, vincente all’Inter e in Nazionale, maturato caratterialmente (niente più urlacci e lamentele a ogni passaggio mancato dei compagni) e tecnicamente, cercato dalle più grandi d’Europa. Tutto vero, ma di tutto questo non c’è traccia nelle ultime uscite. Christian Chivu conosce i meccanismi di uno spogliatoio, l’ambiente e il maggiore sforzo sarà proprio dedicato a questo: il recuperò dei fedelissimi. Ma dare un compito del genere a un allenatore che deve anche impostare una svolta tattica alla squadra post Inzaghi è un rischio. Consapevole, ma comunque un rischio. Che poi, vedendo la gara di Torino, parlare di mezza rivoluzione è persino esagerato: l’età media degli undici in campo superava i trent’anni, Akanji escluso dei nuovi nessuno è partito dall’inizio; stesso modulo, il 3-5-2, e calci piazzati. Cose già viste, insomma. Largo ai giovani con Chivu, si diceva a inizio stagione. Peccato che all’Inter i risultati servono subito, la parola crisi già aleggia. In un contesto del genere non ci si può aspettare che l’allenatore metta nel tritacarne i vari Francesco Pio Esposito e Ange-Yoan Bonny. E non sarebbe nemmeno del tutto giusto: sono i veterani che devono prendersi le loro responsabilità. Perdere 4-3 al novantunesimo dopo esser stati in vantaggio 3-2 non può essere solo colpa di chi sta in panchina, anzi. L’unica certezza, forse, è l’attacco, il migliore in questa Serie A, con Lautaro Martinez sempre leader e Marcus Thuram che sorrisi con Khephren a parte è partito bene. Altre scelte estive, poi, come la mancata partenza di Hakan Calhanoglu (che comunque ha fatto doppietta), forse sono state forzate e dettate più dalle circostanze che dalla volontà di Marotta e Ausilio. C’è più di qualcosa all’Inter che non va. Dalla porta fino allo spogliatoio, fin dentro la testa dei giocatori. Una rivoluzione mancata dopo la fine di un ciclo. Facile a dirsi, difficile a farsi. Ma la vita dei grandi club è fatta anche di questi passaggi. E serve essere pronti.

