Che le auto elettriche non siano (più) destinate a diventare il futuro degli automobilisti europei, seppure non in modo ufficiale, pare essere certo. Insomma, l’obiettivo del 2035, anno in cui la transizione all’elettrico del parco auto dell’Ue dovrebbe completarsi, rimane ancora nelle carte, ma scricchiola sempre di più. Dopo anni e anni in cui esperti del settore, e gli stessi “utenti” dell’automotive, hanno esposto i propri dubbi al riguardo, nelle ultime settimane le critiche sono arrivate anche internamente, prima dalla Commissione europea e poi dalla Corte dei Conti. In poche parole: non siamo ancora pronti ad abbandonare i carburanti tradizionali; e adesso a minacciare il green ci pensano le prossime Europee, ma soprattutto Giorgia Meloni. Il Presidente del Consiglio ha reso nota la propria decisione di scendere in campo per votazioni, e non ha mancato di puntare il dito verso certe politiche ambientaliste, dichiarando, secondo quanto riportato da La Verità, la volontà di modificare la normativa europea sulle abitazioni e sulle auto. Riguardo queste ultime, la Premier ha affermato che “ci siamo battuti contro le follie ideologiche dell’Europa […] come quella di smettere di produrre auto a benzina e diesel dal 2035. Nessuno nega che l’elettrico possa essere parte della soluzione, ma nego che possa essere l’unica. Sostenere il contrario è un’idiozia suicida, soprattutto se l’elettrico è prodotto da nazioni che non rispettano neanche lontanamente i vincoli ambientali ai quali sono sottoposte le nostre aziende” (fonte La Verità). Una severa critica alle auto elettriche è arrivata anche da Jody Brugola (presidente di Oeb Brugola, grande azienda italiana che collabora anche con vari brand automobilistici), il quale ha affermato che “c’è bisogno di tornare a pensare che il motore endotermico - ha affermato nell’intervista rilasciata a Davide Perego (La Verità) - è un qualcosa che […] ci appartiene e dobbiamo continuare a investire nella ricerca e lavorare per combustibili alternativi alla benzina […] non dobbiamo essere talebani e decidere di percorrere una sola strada a discapito di altre”. Una visione simile è quella definita dal ministro delle infrastrutture e dei trasporti Matteo Salvini in occasione dell’ultimo G7 sui trasporti di Milano. Inoltre, ha sottolineato Brugola, “dobbiamo fare le cose intelligenti e darci dei target realizzabili: il 100% elettrico non sarà mai raggiungibile, il mercato non lo vuole e poi dobbiamo pensare anche alle infrastrutture”.
Ma tornando alla Meloni; infine il presidente di Fratelli d’Italia ha ribadito la volontà di rivedere le leggi riguardo la transizione energetica dell’Unione, sottolineando che “noi difendiamo il principio della neutralità tecnologica. Mentre salviamo l’ambiente vogliamo salvare le imprese e i lavoratori”. Tutto chiaro, ma intanto nessuno sembra voler difendere Andrea Giambruno, giornalista ed ex compagno del Presidente, da alcune attenzioni sospette di agenti segreti (o di semplici ladri d’auto)… Il fatto (o fattaccio) risale al 30 novembre scorso, quando, rivela Luca Fazzo su Il Giornale, “sotto l’abitazione romana della Meloni i poliziotti di tutela vedono due tizi armeggiare intorno all’auto di Andrea Giambruno […] i due esibiscono documenti da poliziotti […] e vengono lasciati andare. Ma l’agente della Volante si segna i nomi, prende la targa, fa rapporto. Partono immediatamente gli accertamenti”. Insomma, la paura di controlli poco limpidi degli agenti segreti al Presidente del Consiglio si fa sempre più alta, e parte l’allarme. In un primo momento le identità della coppia “pare che corrispondano a due agenti dell’Aisi, gli 007 interni […] a quel punto - scrive Fazzo - parte anche l’inchiesta interna dell’Aisi, i due vengono trasferiti all’Aise, la sicurezza estera”. L’inchiesta, però, dopo un po’ fa dietrofront: i due quella notte erano da tutt’altra parte. “Da una telecamera - si legge dalla ricostruzione de Il Giornale -, si risale piuttosto a un’auto rubata, presa in carico da un noto ricettatore, che sarebbe il mandante del tentato furto di portiera”. Eppure il dubbio non va via: “Rimane comunque da capire - sottolinea Fazzo - perché (i due agenti, ndr) siano stati precipitosamente trasferiti da un servizio segreto all’altro, dall’Aisi alla divisione operazioni dell’Aise, uno in Tunisia e uno in Iraq. Destinazioni fuori mano che non avevano chiesto loro”.