Pasquale Cozzolino è uno chef che ha fatto le valigie per portare in America tutta la passione, il profumo e il sapore della cucina italiana. Anzi, per essere precisi: della vera cucina napoletana. Nato e cresciuto all’ombra del Vesuvio, ha deciso di esportare non solo una tradizione culinaria, ma un vero e proprio pezzo di cuore. Napoli gli manca – ci tiene a sottolineare in questa intervista – ma non certo per la burocrazia o per le condizioni lavorative. E proprio per cercare una vita professionale più dignitosa e sostenibile, ha portato con sé il simbolo per eccellenza della sua città: la pizza. Ma oggi, a complicare le cose, ci si mettono anche i dazi americani, con Donald Trump che torna a giocare a braccio di ferro con l’Europa sul terreno dell’agroalimentare. Cozzolino è preoccupato, certo, come chiunque viva di export e qualità. Ma non ha perso la speranza: secondo lui, come già successo in passato, tutto potrebbe rientrare. Intanto, combatte la sua battaglia quotidiana per mantenere viva la vera identità del Made in Italy, e soprattutto del Made in Naples, anche tra scaffali americani e menu “parmesan-style”. Ah, se vi state chiedendo perché il suo nome sia diventato virale, forse avete sentito parlare della "dieta della pizza". Sì, avete capito bene. Non è uno scherzo, né una provocazione: Cozzolino è riuscito a perdere 60 chili mangiando una pizza al giorno. Da 200 a 140 chili, con impasti leggeri, condimenti sani e porzioni equilibrate. Altro che shake proteici e bacche miracolose: qui si dimagrisce con pomodoro e mozzarella. Certo, non tutti l’hanno capita e molti l'hanno criticata, fraintesa, ridotta al titolo da copertina. Ma lui ce la spiega con chiarezza: non è la pizza il problema, è l’eccesso. Con la giusta moderazione, anche un simbolo della golosità può diventare alleato della bilancia. Insomma, lo chef ci ha raccontato la storia di un uomo che ha saputo trasformare un impasto in una missione, un disco di pasta in un passaporto, e una tradizione millenaria in un brand internazionale.

Da italiano in America, ci puoi raccontare come gli Stati Uniti stanno affrontando la guerra dei dazi?
Per quanto riguarda il prodotto fresco, i dazi sono immediati. Come mozzarella, burrata, tutti quei prodotti che viaggiano via aerea. Quindi questi purtroppo avranno un incremento di almeno il 20% subito. Per quanto riguarda invece i prodotti secchi, quelli che arrivano via container, sulle navi c’è ancora tanta merce. Mi hanno detto i miei distributori che ci sarà un “serbatoio” di scorte che dura da 7 fino a 12 mesi. Quindi questi prezzi non dovrebbero aumentare subito. Nel frattempo potrebbe anche accadere che le tariffe vengano rinegoziate. È già successo nel 2016, quando Trump fu eletto: anche allora mise i dazi, ma poi si sedettero a un tavolo e li tolsero. Vediamo come va... nel frattempo stiamo già pagando quelli sul fresco. Ovviamente la clientela vuole quei prodotti: mozzarella di bufala, fior di latte, burrata, e sono prodotti che, volente o nolente, vanno importati. Tutti sono consapevoli che alla fine il prezzo debba aumentare. Io ho parlato con i miei distributori e ho detto: “Vado in difficoltà, tu vuoi vendere negli Stati Uniti? Facciamo che il dazio ce lo dividiamo a metà.” Alcuni hanno accettato, altri no. Vedremo come va a finire.
Sei preoccupato in particolare per i dazi che potrebbero colpire l’agroalimentare Made in Italy.
Sì, certo. I prezzi devono aumentare, e alla fine paga il cliente finale. Non è solo il cibo italiano: negli Stati Uniti si importa quasi tutto. Importano cibo dalla Cina, India, Grecia, da noi… quindi ci sarà un aumento generale di tutto ciò che è alimentare. Un prodotto che costava 20 dollari, oggi potrebbe costarne 21.
Quindi la tua attività ne sta già risentendo o pensi che ne risentirà in futuro?
Si vedrà tra 5-6 mesi. Dipende se dura. Magari si rinegozia tutto e i dazi vengono tolti. Comunque sì, la preoccupazione c’è, assolutamente.
Sul rischio contraffazione, Gino Sorbillo ha affermato che “girano una quantità enorme di cibi tarocchi, nel senso che imitano i prodotti italiani senza esserlo e con una qualità molto molto più bassa. Dal falso San Marzano alle false bufale, dalla finta farina di Napoli agli oli di oliva che suonano italiano senza esserlo. Ora, senza dubbio, queste produzioni avranno più forza”. È vero?
Allora, premettiamo: più che “falsi”, diciamo che sono riproduzioni con nomi diversi, ma che hanno un “sound” italiano. Tipo il parmigiano lo chiamano “parmesan”. Tu sai che non è Parmigiano Reggiano, non è che ti vendono un prodotto con scritto “Parmigiano Reggiano”, ma “Parmesan”, e sai che è prodotto o in Argentina o nel Wisconsin. Molte aziende lo fanno già. Ti posso dire che gli italo-americani non usano quasi nulla importato dall’Italia. Questa cosa esiste da sempre, non è nata ora coi dazi. Noi italiani, qui negli Stati Uniti, lottiamo per far capire al cliente la differenza tra i prodotti. Io, per esempio, non potrei nemmeno volendo usare quei prodotti: rappresento l’Italia, sono italiano, nato e cresciuto a Napoli. Non posso usare un prodotto che ha un sapore completamente diverso. Il parmesan, per esempio, ha proprio un gusto diverso. E ti dirò la verità: in realtà il parmesan non costa poi così meno del Parmigiano. Te lo fanno pagare comunque, perché lo fanno col latte americano, che è anche buono, ma la tecnica è diversa.
Quanto costa di più rispetto all’Italia preparare una pizza in America?
Già prima costava molto, adesso con i dazi ancora di più. Considera che devi far arrivare i prodotti dall’Italia, via aerea o via mare, pagare i dazi, che già esistevano, ora aumentano. Per esempio, sulla farina c’era già un 10%, sulla mozzarella pure. Ora saliranno al 20%. Fare una margherita, considerando solo gli ingredienti, ci costa tra i 4 e i 4,50 dollari. Non sto considerando affitto, lavoratori, elettricità e tante altre spese.

Una domanda più personale: ti manca Napoli?
Questa è facile: mi manca tantissimo dal punto di vista affettivo, la famiglia, gli amici... Dal punto di vista burocratico e lavorativo meno, devo dirti la verità. Però non escludo che fra qualche anno, messi da parte un po’ di soldi, torni a svernare a Napoli.
È meglio la pizza napoletana o quella casertana?
Non so se ha senso distinguere tra le due, per me esiste la pizza campana. Ovviamente la napoletana ha la sua storicità, essendo nata nel centro storico. Ma l’evoluzione degli impasti è legata alla panificazione, quindi si è sviluppata anche altrove. Non ti so dire chi sia stato il primo a fare la pizza contemporanea, forse San Marco, che è napoletano. La pizza dei fratelli Masanelli, Sasà e Francesco, mi piace tantissimo. La chiamerei la pizza di Sasà e Francesco, più che “casertana”.
Secondo te i critici gastronomici sottovalutano i pizzaioli?
Non credo. Quando ho iniziato io, negli anni '90, il pizzaiolo era l’ultima ruota del carro. Oggi invece ci sono star in tv, interviste, tanta attenzione mediatica. Forse pure troppa, ma non fa male. Anche la Coca Cola, che la conoscono ovunque, continua a fare pubblicità. Quindi la visibilità fa bene.

Vittorio Feltri ha recentemente detto che piatti iconici del Sud come pizza e spaghetti al pomodoro sono "schifezze", mentre la vera cucina italiana sarebbe quella del Nord. Come rispondi?
Come diceva Edoardo De Crescenzo, anche se oggi non si potrebbe dire, “quando noi eravamo ricchioni, voi stavate ancora sugli alberi.” Che significa? Che il Sud era già molto più avanzato culturalmente, e anche nella cucina. Abbiamo ricette antichissime, influenze da tutto il mondo. E se guardi la lista dei dieci piatti italiani più famosi al mondo, sicuramente non ci trovi i pizzoccheri!
Anche in America si discute dei prezzi alti di alcuni prodotti? Da noi si è parlato delle chiacchiere a 100 euro di Iginio Massari. In America accettano più facilmente prezzi alti?
Sì, qui il prezzo medio è molto più alto. Ma 100 euro per una chiacchiera... secondo me è solo marketing. Fa parlare e alla fine tutti conoscono Massari.
In Italia si è parlato anche della Gintoneria di Davide Lacerenza, poi arrestato. Anche in America ci sono locali finiti nei giri di droga e prostituzione?
Qui la legge è molto più severa. Se fai qualcosa del genere non ti arrestano, qui buttano la chiave. C’è il caso famoso di Mario Batali, chef proprietario di Eataly in America. Ci sono documentari su Netflix: adescava ragazze che lavoravano per lui in cambio di favori. È stato arrestato, c’è ancora il processo in corso. Come per Lacerenza, anche se da noi c’è meno attenzione. Sì, qui forse si esagera, ma meglio così. In Italia certi atteggiamenti sono ancora troppo tollerati. Quando torno, certe battute o atteggiamenti mi suonano proprio strani.
Parliamo di AI, come quella di Cracco: sarà un aiuto in cucina o toglierà posti di lavoro?
Sarà una rivoluzione. Qui negli Usa già si parla di androidi che possono fare tutto: cucinare, impastare, tagliare… Per i lavori che nessuno vuole fare, tipo lavare i piatti, sarà inevitabile. Ma la creatività umana dello chef resta insostituibile, almeno per ora.
Ultima domanda sulla dieta della pizza. Ti ha dato grande visibilità, ma hai ricevuto molte critiche. Cos’è che non hanno capito?
Non hanno capito come funziona il corpo umano. Non è che mangi solo pizza e dimagrisci. La dieta della pizza è parte di un percorso: orari precisi, esercizio fisico, controllo calorico. Non conta solo cosa mangi, ma quando e quanto. Abbiamo lavorato con un nutrizionista, e ora stiamo facendo un test con l’Università della California su 150 persone. Non solo funziona per perdere peso, ma può allungare la vita, perché parte dalla dieta mediterranea, la più efficace per la longevità. Vedremo chi avrà ragione, se i critici o chi la sostiene.
