Auguri a Giuseppe Conte. Non per i sessant’anni appena compiuti, ma per il futuro del suo Movimento 5 Stelle. Suo, già. Da quando il fondatore e “garante” Beppe Grillo, fuori dalla scena per motivi anagrafici e familiari (l’accusa di stupro al figlio Ciro un suo peso deve averlo avuto) è relegato al ruolo, sotto contratto, buon affare ma limitante, di “consulente della comunicazione”, il padrone della ditta è lui, l’avvocato pugliese divenuto una stella della politica con i due governi omonimi (Conte 1 e Conte 2, 2018-2021). Al vecchio mattatore genovese non è rimasto neppure più il controllo del logo, che era l’arma finale nelle sue mani per rendere dirimente, alle strette, la funzione di “garanzia”, etichetta residuale di un passato che sta per tramontare definitivamente. La riorganizzazione interna che Conte sta per lanciare, infatti, prevede una “assemblea costituente” in cui, sulla carta, gli iscritti potranno ridefinire tutto: regolamento, temi, leadership, tetto dei due mandati, perfino il nome del movimento. È plausibile pensare che, nelle more di tale fase rifondativa, fra sorteggi da una base già “contizzata” e mediatori di una società privata specializzata in “processi decisionali” (Avventura Urbana), l’esito non risulterà troppo sgradito all’attuale leader. Anche perché non se n’è mai visto uno che rifà le regole per rischiare di saltare. Il M5S oggi è Conte. Proprio per questo Grillo, con la recente lettera che gli ha indirizzato, ha palesato tutta la sua stizza per essere stato, di fatto, tagliato fuori. E non hanno torto gli undici ex, da Nicola Morra ad Alessio Villarosa (espulsi a suo tempo per non aver votato l’appoggio al governo Draghi, una delle varie carambole del trasformista “Giuseppi”) nel chiamare quest’ultimo alla correità per il progressivo declino elettorale di una forza che nel 2018 aveva superato il 30%. Certo, fare ora di Conte il capro espiatorio è un po’ facile: fu proprio Grillo, che i frondisti esterni assolvono per affetto e gratitudine, a decretare l’inizio della parabola discendente che data dal Conte 2, con l’abbraccio al Pd, e si aggrava con la benedizione a Draghi (“mi aspettavo il banchiere di Dio, invece è un grillino”, furono le sciagurate parole del Garante). Resta il fatto che a gestire operativamente l’eredità del comico e di Gianroberto Casaleggio (“governare con il Pd? Uscirei dal Movimento”) da qualche anno è Giuseppe Conte. In questo aiutato anche, bisogna dire, dall’auto-evirazione dell’ala che faceva riferimento a Luigi Di Maio. E tuttavia, a onore oneri: la responsabilità di ciò che hanno fatto e non hanno fatto i 5 Stelle, quanto meno nell’ultimo biennio, va messa in conto a questo legale in origine oscuro ai più, la cui scelta iniziale poteva anche sembrare originale e innovativa: mettere alla Presidenza del Consiglio non un politico più o meno di mestiere, ma un volto fra milioni. Un’operazione simbolica più che di sostanza, magari, ma coerente con l’aspirazione grillina a mandare nel Palazzo persone comuni.
Il guaio è che Conte non soltanto, com’è umano, ci ha preso gusto, ma complice la popolarità (in positivo e in negativo) conquistata nei mesi delle celebri “dirette” pandemiche, ha saputo poi convertire la propria fama in rendita politica, trasformando sé stesso nel marchio vivente per cui una percentuale di elettori, via via sempre più bassa, ha continuato a votare 5 Stelle. E per quanto imparagonabile alla carica trascinatrice del fondatore ai bei tempi, ha sostituito Grillo. Gli italiani, se pensano al M5S, lo associano da un pezzo a Conte, non più a Beppe l’Elevato. Il successo individuale dell’“avvocaticchio”, come lo ha sprezzantemente definito un intellettuale una volta schierato con i pentastellati, Massimo Fini, viene da qui. Cioè dall’aver scavalcato la personalizzazione della politica, che è una delle leggi fondamentali di quel mercato formato dai partiti e dalle sigle affacciate sull’agone pubblico. Oltre, però, il Nostro non è andato. Il massimo che è riuscito a fare è stato, nell’ordine: salvare in extremis l’esistenza stessa del Movimento 5 Stelle sfilandosi dall’ammucchiata Draghi, per tentare di recuperare una parziale verginità di forza “antisistema” (per altro già annacquata nell’alleanza con il Pd, perché invece il precedente connubio con la Lega, obiettivamente, rompeva gli schemi, al netto del calcolo politico di quell’altro trasformista di Matteo Salvini); riposizionarsi a sinistra del Partito Democratico, sia pur sfumandola con una distinzione di pura lana caprina, fra l’“essere di sinistra” ed essere “progressisti” (ma per favore, su); scommettere su quegli italiani astensionisti di centrosinistra perché stufi di un centrosinistra, al di là di “diritti” e “inclusione”, fotocopia del centrodestra; rifondare la creatura grillo-casaleggesca sbandierando la “democrazia partecipativa”, ma diretta dall’alto e senza dotarsi di una struttura interna solida (un vizio, quest’ultimo, in realtà genetico di una realtà che mai è stata in grado di invertire il rapporto fra primato virtuale del web e attività sui territori, dove infatti i grillini sono sempre stati, e sono, debolissimi).
Ma poi? Poi basta. Poi il nulla. Da quando Conte ha le redini, il M5S non ha estratto dal cappello una sola idea che fosse d’impatto, che condizionasse l’agenda generale, che ridesse una ragion d’essere abbastanza attrattivaper gli orfani del reddito di cittadinanza, vera, grande e soprattutto concreta novità introdotta dal grillismo. Il salario minimo, che aveva tutto l’aspetto di rappresentare il nuovo cavallo di battaglia, è finito presto in condivisione con il Pd di Elly Schlein, che bisogna ammettere essere riuscita a dare un minimo di riverniciata “sociale” – ci voleva poco – al partito che era di Renzi e Letta. Ecco, la Schlein: sarà finché si vuole una figura dal carisma dimesso e dall’irritante parlata di una per benino che vorrebbe salvare il mondo con Alessandro Zan(sic), però il gioco di attirare il voto dei delusi a sinistra, a Conte, gliel’ha rotto. Gliel’hanno guastato persino i cespuglianti minori Fratoianni e Bonelli, forti fra i giovani di classe medio-alta (che una volta votavano, assieme a molte altre fasce della popolazione, il Movimento). Pensate che, quanto a propositività, la Schlein è riuscita financo a sorpassare gli ex grillini ora contiani, tirando fuori la settimana lavorativa corta. Certo, non esattamente la soluzione ai problemi di impoverimento reale del ceto medio proletarizzato, né tanto meno dei disoccupati e semi-occupati precari, ma indice già di una maggior vitalità. E, parlando del Pd iper-conformista in politica estera (atlantismo, Israele, Ucraina) e sempre e comunque anemico in politica economica, abbiamo detto tutto. A questo punto la domanda s’impone: a che serve, oggi, il Movimento Stelle? Qual è il suo senso politico? Ci si può davvero aspettare che da 300 delegati estratti a sorte, con proposte mediate e inviate all’assemblea-evento (non senza “ascoltare” i minorenni: bella idea, romantica, ma senza formazione, senza studio, senza gavetta, equivale a pura vetrina) emerga una strategia meditata, un’identità elaborata, qualcosa di più della mera tattica, con i suoi “campi larghi” e le sue formule di cui all’’italiano schifato e astenuto, alle prese con la vita vera, frega il giusto, cioè zero? Morra&C accusano l’odierno Movimento di tramutarsi in un “clone del Pd” (appena meno indigesto e meno ambiguo, aggiungiamo noi, sugli esteri). In effetti, la china è quella. E allora, l’interrogativo andrebbe rimodulato: non a che, ma a chi serve, oggi, il Movimento 5 Stelle? Puntiamo quello che volete, anche i nostri gioielli della corona, che servirà ancora, e per un lungo periodo, a Conte Giuseppe. Colui che sulla scia di un Grillo imprevedibile e irriconoscibile, ha addomesticato il vaffa in un’orazione forense all’acqua di rose. Per chi aveva creduto nell’onda anomala grillina, il meno peggio (per assenza di alternative). Cioè il peggio a cui tutti siamo abituati, che si sia di sinistra, destra, centro, di sotto e di sopra.