“Questa è sempre la chiesa, stavolta trasformata in sala da feste. Abbiamo solo quell’ambiente lì, ci facciamo la catechesi, ci facciamo la liturgia, ci facciamo gli incontri seri e anche i momenti di socialità. Un quindicesimo compleanno di una ragazza - la cui famiglia non si può permettere neanche una casa normale - meritava una festa adeguata”. Sono nel salone dell’oratorio di San Luca Evangelista, zona Città Studi, Milano. Sono qui perché don Carlo Doneda, parroco fino al 2017, è tornato in Italia per qualche settimana e ora sta raccontando ai suoi ex parrocchiani la sua esperienza di missionario a Cuba, diocesi di Santiago de Cuba, parrocchia di Baire. Don Carlo è un mio amico. L’ho conosciuto qui, a Milano, e quando torna in Italia non manco di incontrarlo. È un vero missionario, che ha deciso di mettersi in gioco intorno ai cinquant’anni, andando in missione in un luogo che non conosceva, Cuba, un posto che negli ultimi anni, ci ha spiegato, è in caduta libera, niente medicine, niente benzina, la luce razionata e la totale assenza di qualsiasi tipo di bene primario. Non solo, Cuba è talmente in caduta libera che ormai anche lo Stato, ultimo a tenere in piedi una idea di comunismo decisamente fuori tempo massimo, il mito della Rivoluzione ancora a farsi valere nelle parole dei dirigenti, ha smesso di impedire la fuga verso l’estero, con aerei che tutte le settimane partono per il Nicaragua, tre voli a settimana, senza prevedere un ritorno, i cubani che da lì intraprendono un cammino della speranza a piedi fino al confine tra Messico e USA, per non dire del ricongiungimento familiare da qualche tempo permesso dagli stessi Stati Uniti, fatto che ha accelerato una sorta di diaspora, duecentocinquantamila migranti solo l’anno scorso, duecentocinquantamila su una popolazione di circa undici milioni di abitanti. Fatto, questo, che spinge tutte le eccellenze, professori, medici, giovani di talento, a organizzarsi per andarsene, lasciandosi alle spalle una nazione in rovina, un tempo sostenuta dai soldi mandati in patria da chi riusciva a andarsene, oggi anche da questo punto di vista abbandonata a se stessa. Un missionario, don Carlo, in una nazione che ha a lungo osteggiato il cristianesimo nelle sue forme istituzionalizzate, cattolici, protestanti, e che quindi ora vede scarsissime presenze di preti cubani, con gli italiani che comunque scarseggiano e sono spesso visti dalla popolazione locale con diffidenza, almeno inizialmente, e anche con pudore, almeno nell’esporre le proprie problematiche. Perché poi, torniamo all’incipit di questo pezzo, è proprio la possibilità di dare una mano, da una parte, di ricevere quella mano, dall’altra, a abbattere ogni diffidenza e creare un benché minimo senso di comunità. Don Carlo, per dire, ci ha spiegato come nella sua parrocchia ci sia un gruppo di ragazze madri, giovanissime, che lì hanno possibilità di fare dei lavori con la macchina da cucire, ricevendo un sussidio. Un progetto che inizialmente prevedeva un solo appuntamento al mese, ma che oggi è diventato di due volte a settimana, con ogni ragazza che ha ottenuto in regalo una propria macchina da cucire, comprata da don Carlo coi soldi ricevuti in beneficenza proprio dalla parrocchia di San Luca, e che quindi spesso rimangono dentro il progetto assai più di quanto non fosse previsto, i nove mesi della gravidanza e i primi tre col neonato. Ci sono ragazze madri che arrivano fino al momento in cui i piccoli entrano a scuola, a cinque anni, e che proprio in queste settimane hanno cucito con quelle macchine le divise dei loro piccoli. La ragazza di quindici anni da cui è partito questo racconto è una di loro, divenuta madre quando ancora aveva quattordici anni e, a differenza di quasi tutte le altre, ancora con un compagno a fianco, in genere scappano anche prima del parto, quasi mai comunque accolti dalle famiglie di origine, a loro volta incasinate e anche piuttosto allargate e articolate. La festa dei quindici anni, a Cuba, è una sorta di corrispettivo del nostro diciottesimo compleanno, un ingresso in società, il passaggio da infanzia a età adulta nel momento in cui la madre sfila alla figlia le scarpe da ginnastica per farle indossare quelle col tacco, ci ha raccontato don Carlo, e lì si è soliti festeggiarli anche andando a farsi una foto da un fotografo professionista, indossando un abito di stile spagnoleggiante, piuttosto vistoso, con acconciatura fatta ad hoc, unghie curate, bouquet, e tutto il resto. Foto che costano, non tutte le famiglie se le possono permettere, e che poi finiscono in versione gigante sulla parete della stanza più bella delle case delle famiglie di quelle ragazze, un po’ come accade coi diciottesimi tamarri che abbiamo visto diventare virali grazie ai social, TikTok in testa. La ragazza in questione, non cito il nome non per privacy, vive a Cuba, che mai ne potrà sapere di quel che scrivo? È una bella ragazza che si è fatta fotografare con un vestito davvero barocco, in una foto anche col suo compagno, a sua volta vestito elegantissimo. Abiti del fotografo, appunto a disposizione di chi deve fare questi servizi, ci ha spiegato. Sono stato due volte a Cuba, in tempi ormai lontani, la prima volta in viaggio di nozze, quindi visitando la parte più turistica dell’isola, quella che si muove tra L’Avana, Varadero e l’isoletta di Cayo Largo. La seconda un anno dopo, per lavoro, facendo un lungo viaggio in auto, da L’Avana fino proprio a Santiago de Cuba, la mitica carrettera central a farci sobbalzare sui sedili dell’auto a noleggio, uso il plurale perché anche in quel caso con me c’era mia moglie, una deviazione a Trinidad e un’altra a Santa Lucia, l’idea di un coast to coast, nello specifico da ovest verso est, che mi ha fatto conoscere un paese pieno di contraddizioni e di fascino, io messo al bando dal governo cubano per il mio aver poi raccontato le ombre, mentre per loro avrei dovuto raccontare solo le luci, di qui il non esserci mai ritornato. Ai tempi c’era l’embargo, come ora, ma il paese era ancora vivibile, anzi, era per un turista un luogo dotato di un fascino singolare, proprio per quel suo essere privo di alcuni optional, ma al tempo stesso dotato di una orgogliosa storia politica, mentre ero lì era stato ritrovato il corpo di Che Guevara, esposto a L’Avana a oltre trent’anni dalla morte, ora ospitato a Santa Clara. Per qualche tempo, allora, scrivevo più di viaggi che di musica, ora per altro sto tornando a scrivere parecchio di viaggi, anche se sono più che altro viaggi a Milano alla scoperta del mondo, viaggi che faccio in estate con la famiglia come quello in Albania a parte, per qualche tempo, dicevo, ho anche pensato di farne una mia seconda casa, diventare cioè una sorta di esperto di Cuba, come Pino Cacucci, scrittore mio compaesano, lo era per il Messico, poi la vita mi ha portato a fare altro, e va bene così. In realtà, so che potrebbe non sembrare così, il mio intento non era però tanto di raccontarvi del mio amico don Carlo e della sua esperienza di missionario a Cuba, lui che prima di partire mi ha parlato in maniera piuttosto precisa, per quanto visionaria, di quel che il cattolicesimo potrebbe diventare in un futuro prossimo, quando cioè anche da noi i preti diventeranno sempre meno, come in effetti sta poi accadendo, mentre lo faceva era a cena da noi con il suo viceparroco, don Andrea, nel mentre trasferito dalla diocesi a Gallarate, in una felice esperienza pastorale di condivisione tra più parrocchie, entrambi sostituiti poi da don Attilio, a sua volta divenuto nostro amico, ora spostato in zona China Town, con San Luca che è divenuta una sola comunità pastorale, due parrocchie distinte in una, con quella di Casoretto, a essere visionari a volte ci si prende. In realtà, dicevo, so che potrebbe non sembrare così, il mio intento non era però tanto di raccontarvi del mio amico don Carlo e della sua esperienza di missionario a Cuba, quanto piuttosto proprio della festa dei quindici anni, volendo anche quella dei diciottesimi, star qui a sottolineare come sia una caratteristica che è approdata al nord, Milano compresa, partendo però da sud farebbe forse di me un proto-leghista, ma tant’è, così sono andate le cose.
Non so se vi è mai capitato di entrare in uno di quei negozi che vendono materiali per le feste di compleanno, e anche per le feste in generale, da capodanno a carnevale, ai matrimoni. Negozi che vendono festoni, pallonicini, cose da appendere in giro, biglietti sfiziosi, fuochi d’artificio, varie e eventuali. Dalle mie parti, per dire, ce n’è uno piuttosto popolare in via Ricordi, vicino a Piazzale Loreto, per altro a due passi da un negozio che invece è specializzato in materiale per preparare le torte, dalle cialde coi personaggi da metterci sopra ai vari tipi di glassa colorata, passando per le essenze più svariate e non so che altro. Uno ci entra, io ci sono entrato parecchie volte, ho quattro figli, gli ultimi due, gemelli, ancora in quell’età nella quale festeggiano il compleanno in maniera più vicina a quella dei bambini che a quella degli adulti, uno ci entra e rimane letteralmente stupito nel vedere come ci sia un sacco di roba che, in genere, non ha mai visto a nessuna delle feste a cui ha preso parte. Non perché conduca, quest’uno, nello specifico poi sarei io, sotto una campana di vetro, isolato da tutto e tutti, ma solo perché, almeno fino a un certo punto della mia vita, quando ero andato a compleanni era sempre in un ambito che non faticherei a definire provinciale, invitato da miei concittadini per festeggiare altri miei concittadini. Lì nessuno esibiva grandi numeri o lettere sotto forma di enormi palloncini gonfiati a elio, spesso dorati o argentati, nessuno esibiva festoni a loro volta fatti di tanti palloncini, a volte costruiti come fossero una vera e propria torre multicolore, nessuno esibiva quelle strane cose, non saprei come altre definirle, coperte di strisce di carta che poi qualcuno avrebbe appeso al soffitto e qualcun altro avrebbe provato a rompere a colpi di clava, le pignatte, nessuno esibiva tutta una serie di festoni degni di essere sparato dentro una versione coatta di Tano da Morire o di Narcos. Poi è successo che una piccola compagna di classe della nostra figlia maggiore, quando faceva la scuola materna o le elementari, l’abbia invitata al proprio compleanno, in un locale di via Padova, dove ora sorge NoLo ma ai tempi c’era una sorta di No Man’s Land dove difficilmente ci si addentrava a mano disarmata, un locale che dall’esterno sembrava qualcosa di simile a un circolo del dopolavoro ferroviario, ma scendendo le cui scale si apriva in una sala da ballo con tanto di palla stroboscopica appesa al soffitto, piena zeppa di adulti e bambini sudamericani e di tutti quei festoni che ho su descritto. Unica assente, e non poteva che essere così, la festeggiata, non a caso arrivata con clamoroso ritardo proprio per creare hype, parola che suppongo nessuno dei presenti avrebbe mai usato in quel contesto (volevo dire che nessuno la conosceva, ma credo di aver già a sufficienza compromesso la mia immagine), come al sud succede con le spose nel giorno del matrimonio. Lo so, sto continuando a portare avanti questo parallelo tra Sudamerica e meridione che mi rende una sorta di Vittorio Feltri sobrio, ma è per rendere comprensibile a tutti quel che voglio raccontare, gli stereotipi stanno lì per quello, del resto, mica me li sono inventati io, li ho solo usati. Un compleanno, primo di una serie, strepitoso, con noi genitori italiani tutti raccolti da una parte, ogni tanto approcciati dai parenti della festeggiata che ci offrivano torte dalle glasse fluo o bevande gassate a loro volta dai colori psichedelici, finché a un certo punto non è arrivata la festeggiata, vestita come Sissi il giorno del matrimonio, solo in maniera più barocca e sfarzosa. Una festa che ovviamente è entrata nella nostra aneddotica, anche se col tempo, vuoi perché si sono allargati i giri dei festeggiamenti, con quattro figli hai voglia a andare a compleanni, vuoi perché nel mentre anche in Ancona, la mia città natale, sono arrivati extracomunitari, così che i miei racconti diventassero meno interessanti agli orecchi di chi aveva vissuto di prima mano le medesime esperienze, non ho finito per archiviare il tutto come normale, a tratti anche quotidiano. Del resto anche in alcuni compleanni di compagne e compagni italiani dei miei figli sono apparsi quei festoni, confesso in un paio di occasioni anche dei miei figli. Quel che non mi è mai capitato, e credo non sia capitato stranamente quasi mai neanche ai miei figli più grandi, Lucia ventidue anni, Tommaso diciotto, mi è capitato di avere racconti di prima mano di diciottesimi degni di finire su Tik Tok, abiti da serata di gala, locali affittati con catering da raduno dei grandi della Terra a Cernobbio, quella roba lì. Del resto mio figlio non ha voluto festeggiare i diciotto anni se non con pochi amici, come avevo fatto io a mio tempo, e mia figlia, che è nata l’8 agosto, si è ritrovata a festeggiare il suo diciottesimo compleanno a Auschwitz, nel mezzo di una vacanza on the road tra Budapest e Berlino, decisamente il compleanno più originale che io abbia mai sentito raccontare. Quindicesimi compleanni, vuoi anche diciottesimi, a diverse latitudini le età hanno pesi diversi, festeggiate dentro una chiesa ma in fondo a cosa dovrebbe mai servire una chiesa se non a celebrare la vita? La Chiesa riparta da don Carlo, lì a Cuba, i festoni, metaforici o meno, li portiamo noi.