Contro ogni previsione e nonostante un clima di incertezza commerciale, politica e tecnologica, l’economia americana continua a sorprendere. Nel mese di giugno, il mercato del lavoro ha registrato 147.000 nuove assunzioni nette, un’accelerazione rispetto ai 139.000 di maggio e ben oltre le stime degli analisti. Il tasso di disoccupazione è sceso al 4,1%, un dato che si avvicina ai minimi storici, rafforzando l’idea che la macchina economica statunitense non abbia ancora perso slancio.
Questa performance arriva in un momento in cui prevalgono segnali di incertezza. Le relazioni commerciali internazionali restano tese: le trattative con l’Unione Europea e il Giappone non hanno prodotto accordi definitivi, mentre con la Cina regna una tregua precaria. Intanto, sono già in vigore dazi medi del 10% sulle importazioni, con punte ben superiori in settori strategici come acciaio e automotive.
Anche sul fronte interno non mancano elementi di instabilità: il giro di vite sull’immigrazione irregolare crea carenze di manodopera in alcuni comparti; la legge di bilancio è ancora in fase di approvazione al Congresso; mentre prosegue lo scontro tra Donald Trump e la Federal Reserve, con il primo che accusa l’istituto guidato da Jerome Powell di frenare la crescita non tagliando i tassi d’interesse. A complicare il quadro si aggiungono i timori legati all’intelligenza artificiale, alimentati da recenti tagli al personale annunciati da big tech come Microsoft. Eppure, nonostante tutto, l’economia americana continua a generare posti di lavoro. Una dimostrazione concreta della resilienza strutturale del sistema economico Usa, che ancora una volta smentisce le narrazioni più pessimistiche.

I dati sull’occupazione mettono in luce una realtà che va oltre le contingenze politiche. A differenza di quanto spesso si pensa, la traiettoria economica degli Stati Uniti – superiore a quella europea, e ancora distante dal sorpasso cinese – ha attraversato fasi politiche molto diverse, da Bush a Obama, da Trump a Biden, fino al ritorno dell’ex presidente. La continuità della crescita suggerisce che i veri motori dell’economia siano la flessibilità del mercato, l’innovazione e la fiducia degli investitori, più che le singole scelte dell’amministrazione in carica. Tuttavia, secondo un sondaggio pubblicato dal Wall Street Journal, la percezione degli elettori è ben diversa: la maggioranza attribuisce il merito (o la colpa) per la situazione economica attuale alle politiche di Trump, non più all’eredità lasciata da Biden.
I numeri rafforzano la posizione della Federal Reserve, che ora ha una motivazione in più per non modificare la propria strategia monetaria. In un mercato del lavoro così solido, non c’è urgenza di abbassare i tassi d’interesse. Powell può mantenere la linea della prudenza, anche alla luce del fatto che lo spettro della recessione sembra più lontano. Eppure, Trump ha ottenuto un risultato tangibile dai suoi attacchi alla Fed: la svalutazione del dollaro, un effetto collaterale che ha migliorato la competitività delle esportazioni americane, reso più attraenti gli investimenti esteri negli USA e incentivato la delocalizzazione inversa. Ma se l’economia americana continuerà a mostrare forza, è possibile che il dollaro recuperi terreno, vanificando uno degli strumenti più efficaci per sostenere la crescita industriale.
