La morte di Aleksei Navalny, il dissidente russo deceduto in una colonia penale oltre il Circolo Polare Artico nella giornata di oggi, è una tragedia enorme che mostra la forza del condizionamento e dell’arbitrio interno che contraddistinguono il Paese governato da Vladimir Putin. Nel “gulag” di Putin perde la vita il quarantasettenne oppositore da anni leader della Fondazione per la Lotta alla Corruzione, spina nel fianco del presidente russo, nazionalista divenuto campione di “occidentalismo” per la sua lunga e travagliata esperienza in mano alla giustizia del suo Paese. Il senso di tragedia per la morte, la cui causa definitiva è ancora tutta da chiarire, non deve però far venire meno la lettura delle conseguenze politiche dell’avvenimento. In una fase che vede Russia e Stati Uniti altamente intente a evitare che il sistema globale precipiti verso un’escalation conflittuale incontrollabile la morte di Navalny avrà un senso determinato dalle reazioni che le cancellerie occidentali, Washington in testa, promuoveranno. Nel giugno 2021, incontrandosi a Ginevra, Joe Biden e Vladimir Putin parlarono a lungo, tra le altre cose, proprio del dissidente. Biden avvertì Putin che “conseguenze devastanti” avrebbero colpito la Russia se Navalny fosse morto in prigionia. Ora il giorno temuto è arrivato. Cosa succederà? Tutto è da valutare. La responsabilità per la morte di Navalny è di Putin, non ci piove. Putin ha ordinato il confinamento di Navalny nell’Artico e la sostanziale corsa all’isolamento del suo avversario. Trovatosi ammalato, confinato e non assistito a duemila chilometri da Mosca. Il fatto che Navalny sia morto per un incidente naturale o sia stato ucciso, in quest’ottica, non sposta molto: l’obiettivo dello Zar è parso fin dall’inizio quello di eliminare lentamente il blogger nazionalista diventato pasdaran anti-Putin. Ragionando con l’ottica del cui prodest, proprio di ogni riflessione su un delitto, potremmo dire che se Navalny è stato assassinato in carcere (cosa che non è detta a priori ma, come visto, cambia poco il campo di gioco) lo è stato perché chi ha voluto accelerare con la sua eliminazione mirava a un fine preciso.
Navalny potrebbe essere visto in quest’ottica come il Giacomo Matteotti di Vladimir Putin. Ovvero la vittima per la cui morte la responsabilità morale e storica cade direttamente sul comandante in capo del regime a cui si opponeva, come fu per Benito Mussolini col deputato socialista ucciso un secolo fa, a prescindere che l’ordine di uccisione finale sia arrivato o meno dal capo del regime. E in quest’ottica il cadavere di Navalny gettato ai piedi di Putin “qui e ora” potrebbe sabotare quel discreto, attivo e continuo passaggio di attenzioni politiche e diplomatiche con cui Russia e Stati Uniti stavano sostanzialmente provando a capire i margini di uscita dalla gravissima crisi che le divide. Cercando un sostanziale abboccamento capace di congelare, se non porre addirittura fine, alla crisi in Ucraina. L’affievolimento dell’appoggio statunitense a Kiev e i messaggi mandati da Putin agli Usa nella discussa intervista all’anchorman conservatore Tucker Carlson, in quest’ottica, si tengono assieme. Russia e Usa non sembrano desiderose di continuare a darsele di santa ragione. La morte di Navalny potrebbe, in quest’ottica, apparire come il tentativo di forzare la mano a Putin su questo processo, tranciando ogni idea di uscita diretta dal conflitto. Lo Zar del Cremlino, del resto, teme l’attivismo dei falchi che si annidano tra ultranazionalisti, opposizione comunista, settori delle forze armate e mondo dei blogger e dei commentatori vicini a Evgeniy Prigozhin, desiderosi di portare alle estreme conseguenze lo scontro con l’Ucraina. E dunque con l’Occidente.
Putin, del resto, pochi giorni fa aveva anche incensato Biden, definendolo un presidente migliore e più capace di mediazione rispetto a Donald Trump, considerato dalla vulgata un uomo vicino a Mosca, e parlando con Carlson aveva addirittura abbozzato un discorso sulla possibile liberazione del giornalista americano Evan Gershkovich. “Non esiste alcun tabù per risolvere questa questione. Siamo disposti a risolverlo, ma ci sono alcuni termini che vengono discussi tramite canali di servizi speciali. Credo che un accordo possa essere raggiunto", ha detto. Gershkovich è stato arrestato lo scorso anno a marzo e accusato di spionaggio, e gli Usa da tempo ne chiedono la liberazione. La morte di Navalny, letta in quest’ottica, complicherebbe notevolmente ogni processo. E sarebbe un siluro a ogni possibile trattativa. Ma non è detto che l’intenzione della Casa Bianca sia quella di mettere in campo le “conseguenze devastanti” di cui si parla. Anzi, a ben guardare la morte di Navalny potrebbe aprire a un cinico gioco di potere. Il motivo? Il fatto che la morte dell’attivista può essere vista come la più potente forma di “spot” elettorale che Putin potesse fare a Joe Biden e ai Democratici nella corsa alla Casa Bianca. Lo si capisce guardando come, nel Partito Repubblicano, la morte di Navalny abbia risvegliato le voci più ostili al citato Trump. Emblematico il tweet dell’ex vice di Trump, Mike Pence, conservatore di stampo classico: “L’America è il leader del mondo libero. Se l’America non guida il mondo libero, il mondo libero non viene guidato. Non abbiamo bisogno di scegliere tra essere leader del mondo libero e risolvere i problemi qui a casa. Possiamo fare entrambe le cose e le facciamo entrambe da generazioni. Chiunque affermi il contrario ha una visione piuttosto ristretta della più grande nazione sulla Terra”, ha scritto. Rivolgendosi direttamente a un Trump lanciato verso la terza candidatura. E aggiungendo: “Non c’è spazio per gli apologi di Putin” nel Partito Repubblicano. Praticamente un endorsement a Biden.
E non finisce qui. Altra pedina sacrificale è destinata a essere Julian Assange. La cui estradizione dal Regno Unito agli Usa, dove rischia un processo politico per la sua attività giornalistica che ha poco da invidiare all’arbitrarietà dei processi subiti da Navalny, sarà discussa il 20-21 febbraio a Londra. C’erano poche possibilità di veder scarcerato Assange prima. Ce ne sono ancora meno adesso, visto la nomea di “agente” di Putin che aleggia sull’uomo tra Regno Unito e Usa. Non va escluso che un “patto del silenzio” sui due casi possa essere lo sbocco definitivo. Ragionando per ipotesi, all’idea “Navalny come Matteotti” si potrebbe aggiungere un’altra visione che ponga la morte del dissidente in uno schema più ampio. Navalny potrebbe essere visto come martire democratico ritrovandosi in realtà a essere sacrificato in un gioco di potere fondato sull’assestamento della complessa tettonica dei rapporti geopolitici russo-americani. In cui si preparerebbe il futuro delle relazioni dirette tra Cremlino e Casa Bianca in un anno elettorale in cui lo Zar di Mosca ha la rielezione in tasca e, sotto sotto, spera che a Washington si confermi un uomo navigato ed esperto come Biden. Troppo umorale, troppo imprevedibile e troppo assetato di rivincita per il Cremlino è considerato Trump, di cui al Cremlino preoccupa soprattutto l’agenda mediorientale orientata a un interventismo anti-iraniano e filo-israeliano che può destabilizzare gli scacchieri internazionale. Ma al contempo a Washington già ai tempi della rivolta di Prigozhin si osservava la crisi del regime di Putin con apprensione: agli Usa l’ipotesi di una Russia destabilizzata fa più paura di quella di un’Ucraina spaccata a metà. Nel calcolo di una brutale realpolitik, non è dunque detto che la morte di Navalny possa essere letta dalle cancellerie delle potenze democratiche come un “martirio” a cui rispondere. In un gioco brutale, non è da escludere l’idea che possa essere l’inizio di una serie di mosse di assestamento, non concordate a monte ma assecondate dalle due parti, in cui le vite dei singoli possono finire per essere piccole parti di un ingranaggio più ampio. Quello dei rapporti tra potenze che si pensano imperi. E così di fronte ai grandi movimenti internazionali la vita umana si riscoprirebbe, potenzialmente, impotente e potenzialmente sacrificabile. Qualcosa che vale assolutamente per i regimi autocratici come quello di Putin. Ma da cui non sono esenti le democrazie. Assange, che potrebbe essere la prima vittima indiretta di questo processo, è tutti i giorni nelle nostre menti a ricordarcelo. A prescindere dal silenzio di media e governi occidentali su casi indecorosi che poco hanno da invidiare al brutale arbitrio che ha condotto alla morte di Navalny in Russia.