La morte di Davide Garufi non è colpa dei bulli online, questa è la tesi di Selvaggia Lucarelli. La questione è sicuramente delicata, e trattandosi di suicidio diventa ancora più sfumato tentare di trovare un colpevole. Visto il personaggio, sono stati in molti, ultimo Giacomo Urtis, a collegare l'insano gesto del tiktoker alla transizione di genere, ma la firma del Fatto Quotidiano ha voluto andare in controtendenza con un articolo nel suo blog Vale Tutto. “Non si è mai parlato tanto, troppo e male di “suicidio” come in quest'ultimo anno. C'è chi ha usato questa parola per colpire il nemico, chi per suscitare pietà, chi per fare hype e chi come i giornali per fare click col minor sforzo possibile. L'idea che la parola “suicidio” vada pronunciata avendo cura delle parole (esisterebbe perfino un codice deontologico per i giornalisti) e attenzione per tutto ciò che puo nascondersi dietro a un gesto definitivo, non è mai balenata a nessuno”. La questione principale sollevata dalla Lucarelli è: davvero, in tragedie come queste, bisogna sempre trovare un colpevole? “Giornalisti e commentatori da bar si lanciano in analisi frettolose sul caso del momento sfornando nel minor tempo possibile la soluzione alla grande domanda "perché?". E la soluzione è sempre: perché Tizio o Caio I'ha fatto suicidare. Fine, archiviato il caso. Ed è cosi che il triste caso del suicidio del TikToker Davide Garufi, 21 anni, è da ieri gia sulle prime pagine di tutte le testate nazionali descritto come conseguenza del cyberbullismo”. In psicologia si chiama bias di conferma: promuovere tutte le informazioni che rafforzano i nostri pregiudizi, o le nostre ideologie. “L'immancabile Cathy La Torre partorisce il pensierino del giorno affermando Ciao Alexandra, che la terra ti sia lieve, chi ti insultava ti ha tolto la vita, senza sapere neppure che quello della trasformazione da Davide in “Alexandra” era stato solo uno dei tanti passaggi nel confuso storytelling del tiktoker (che per giunta non voleva piu il soprannome Alexandra). Davide viene descritto dai giornali come una vittima dei bulli, un ragazzo che stava affrontando la transizione per diventare Alexandra e aveva subito I'odio social. E quindi è scattata subito l'indagine per istigazione al suicidio, perché bisogna cercare il colpevole fuori, un colpevole con nome e cognome, da additare”.


Purtroppo, però, se il cyberbullismo è un problema oltre che serio e da non sottovalutare, dietro a un suicidio spesso soggiaciono complesse dinamiche di disagio mentale ed emotivo. Come spiega Selvaggia Lucarelli, Garufi “aveva perso sua sorella, viveva in casa con i suoi genitori senza avere un progetto di vita chiaro e aveva degli evidenti problemi psicologici. A quanto pare da settembre stava curando la sua depressione, ma non serve avere accesso a una sua cartella clinica per comprendere che galleggiava in una spirale pericolosa. Per se stesso e per gli altri. Bastava osservare i suoi video e ripercorrere la sua storia all'indietro per comprendere che Davide non era una semplice vittima del sistema e dei social, ma uno dei tanti ingranaggi perfettamente integrati in un meccanismo sadico. Un meccanismo in cui si può essere carnefici di altri e vittime di una piattaforma, come è capitato a Davide”. Eccolo, il lato oscuro del meccanismo dei social. Anche se, per inciso, a demonizzare lo strumento ci si scorda che dietro ai profili e alle pagine ci sono sempre e comunque delle persone, e molto probabilmente andrebbe ripensato l'essere umano per intero. Comunque Davide Garufi, accusa Lucarelli, era perfettamente integrato nel meccanismo di funzionamento social: “Praticava autolesionismo e pubblicava foto delle sue cosce tagliate anche su Instagram dove molti utenti lo avevano rimproverato duramente di essere pericoloso e incauto. Rilanciava contenuti emo e immagini di suicidi. Parlava in modo superficiale di disturbi dell’alimentazione e di salute mentale. Mostrava le sue parti intime su twitter, forse da minorenne. Aveva finto di avere un tumore e di aver subito un'operazione al cervello. Intorno al 2021-2022 si era iscritto a Roblox (una piattaforma di giochi online) e a quanto pare aveva convinto dei ragazzini a dargli dei soldi (disse poi che aveva rimborsato le sue vittime, ma non credo fosse vero)”. Poi si passa al problema della transizione di genere e, nello specifico, al cyberbullismo. Problemi, entrambi, che Lucarelli tenta di ribaltare.

“Anche la storia del suo desiderio di transizione è piuttosto controversa. Quando si sentiva Alexandra aveva chiesto soldi per farsi il seno, ma poi pareva aver cambiato idea e non voleva più che lo chiamassero cosi. Era alla continua ricerca di una nuova maschera da indossare su TikTok. Ha avuto il periodo emo, quello maranza, quello transgender e mille altri”. Confusione, mancanza di identità, spersonalizzazione. Un'Io debole, forse indebolito ulteriormente dal contesto ideologico dei social e della promiscuità identitaria. Tanto che, e il senso dell'articolo di Lucarelli è fondamentalmente questo, quello che viene chiamato cyberbullismo in realtà era una spinta, seppure brutale, alla richiesta di aiuto per, e nei confronti di, Garufi stesso. “Aveva gia parlato sui social di tentativi di suicidio, il disagio era evidente. Basta fare qualche ricerca su twitter cercando tag del suo vecchio account (@bxrbiealex) e vengono fuori risposte a suoi messaggi ormai eliminati in cui le persone, dal 2023, gli dicevano: io penso che non stia bene, le caption sono un po' disturbanti, io vorrei sapere se è in pericolo, servirebbe una cura specializzata, è malato, petizione per togliere i social a Garufi, mi fa paura, “vai da uno psicologo, ti stai rovinando e non te ne rendi conto, disattiva i social, fallo per il bene pubblico, non è una moda quella di tagliarsi, smettila, “ma nessuno lo aiuta nella sua famiglia?” Certo, c'è anche “chi gli dice ammazzati, chi ucciditi. Un ragazzo scriveva un messaggio addirittura al padre di Garufi avvertendolo del fatto che suo figlio mostrava foto di autolesionismo che potevano essere pericolose per chi era sensibile al tema. Il padre rispondeva che alle volte Davide esagerava e non andava imitato il suo esempio. Su TikTok però le live di Garufi erano seguite da decine di migliaia di persone e la sensazione che avevano in molti è che il personaggio fosse fragile, ma allo stesso tempo avesse compreso perfettamente come creare engagement e polarizzazione su TikTok”. Non solo: lui stesso, in conformità alle regole dell'engagement, “diceva cose scorrette, talvolta irricevibili, aveva fatto una battuta razzista su Khabi Lame, diceva che era gay, poi bisessuale, aveva rinnegato la fase della transizione dicendo che non era mai stato trans, si era inventato la sua grave malattia per suscitare pietà e ricevere attenzione”. Insomma, secondo Selvaggia Lucarelli, Davide Garufi conosceva bene le regole del gioco, ma non aveva gli strumenti per capire che il gioco stesso lo avrebbe stritolato. Un paradosso generale della sua generazione, scrive la blogger, che sembra quella che più si preoccupa della salute mentale ma contemporaneamente quella che meno mette in pratica le proprie preoccupazioni: “A conferma di ciò, ci sono alcuni video confezionati da vari tiktoker dopo la morte di Garufi. La corsa al contenuto performante ha partorito i soliti mostri. Subito sono spuntati gli ex amici che pubblicano un audio che il morto gli aveva mandato, quello che mette sulla bilancia il mattoncino a destra o a sinistra per decidere se sia più probabile che la notizia della morte di Garufi sia vera o falsa. Poi ci sono i moralizzatori che si lanciano in accuse vaghe ai bulli del web come fossero giornalisti boomer qualunque. E c'è anche chi fa nome e cognome di quelli che secondo lui sono i colpevoli. L'importante, in ogni caso, è mettere il proprio faccione in primo piano e fare views grazie alla notizia sul morto in trend topic”. E questo è tragicamente vero: l'algoritmo vince sempre, anche quando una delle sue persone sacrifica sé stessa all'insostenibilità del meccanismo. Proprio come nel capitalismo, dalla sua nascita in poi. Forse sarebbe davvero ora di puntare di più, a partire dell'educazione primaria, sull'educazione affettiva, e magari anche di insegnare la filosofia fin da bambini. Cara Von Der Leyen: puntiamo sul riarmo intellettuale.

