Saranno tre giorni di festa anti-mainstream quelli che partono venerdì 25 luglio a Vertemate con Minoprio, nel Comasco. Tre serate, tre concerti, tre modi diversi per dire: ci siamo anche noi. Apre Bobby Solo venerdì 25, sabato 26 tocca a Simone Tomassini. Sarà Povia a chiudere la rassegna domenica 27. Regista per nulla occulto del B.E.A.T. Summer Festival 2025 (B.E.A.T. sta per Battiti Estate Amici e Tantamusica, nda), Simone Tomassini. Tre appuntamenti presentati da SimoneLab, la scuola di Tomassini, e DMA Dance music academy. Ad aprire tutte le serate, anche il duo Pop Ap. “Questo festival viene da lontano”, ci ha detto Tomassini. “Nel 2008, quando sono morti mio papà Alessio e mio nonno Felice, volevo fare l'ultimo concerto a Vertemate, davanti alla mia gente. Lavoravo con Vasco Rossi, calcavo palchi clamorosi, ma non volevo più cantare. Mio padre mi seguiva sempre, perderlo mi aveva completamente destabilizzato. Però quell’anno, prima di salire sul palco, accadde qualcosa di magico. Un ragazzo in sedie a rotelle mi avvicinò e mi disse: “Simone, io ti ringrazio perché a febbraio ho avuto questo incidente stradale e non posso più camminare, ma quando chiudo gli occhi e ascolto “Niente da perdere” mi sembra di correre nei prati”. Da quel momento indimenticabile, il concerto a Vertemate è diventata una tradizione. Quest’anno, oltre ad ospiti di livello assoluto, due novità: nessuna cover e un’area feste collocata lungo la statale dei Giovi, facilissima da raggiungere”.
Qual è lo spirito che ispira questi tre giorni gratuiti di musica?
In parte è quello di sempre. Lo stesso che nel 2008, dopo la mia tragedia famigliare, mi spinse a passare da Simone a Simone Tomassini. Soprattutto, quel passaggio fu caratterizzato da una scelta per me storica: mi concentrai solo sulla musica e abbandonai, consapevolmente, il mainstream. La tv, la promozione sempre uguale a sé stessa. Un mainstream che già mi andava stretto e che oggi mi va strettissimo.
Perché?
Perché parliamo di un mondo terribilmente autoreferenziale che continua ad autoalimentarsi. Finché, ne sono certo, imploderà. Mostrando definitivamente la pochezza di cui è costituito. Se la suonano e se la cantano sempre i soliti, dai. Mentre io rispondo con un festival che, negli anni, ha regalato diversi defibrillatori al Comune. Abbiamo sempre fatto raccolta fondi. L’anno del terremoto in Emilia-Romagna abbiamo donato denaro a Fabbrico, paese del Reggiano che è gemellato con Vertemate. Oggi, insieme a Bobby Solo e Povia, ribadisco un concetto: ci sono artisti che riempiono le piazze, indipendentemente dal fatto che il concerto sia gratuito o ci sia un biglietto da pagare. Alla faccia dei sold-out finti. Che quando non sono finti sono comunque gonfiati.

Una rivincita?
Forse, in un certo senso. Perché festival come il B.E.A.T. sono trattati come fossero “minori”, ma in realtà danno la possibilità, a un’intera comunità, di vivere tre giorni di grande musica. Tutti gli artisti, mi preme segnalarlo, hanno chiesto ingaggi ridotti, in nome dell’amicizia che mi lega a loro. Due cose, poi: prima del mio concerto di sabato, saliranno sul palco i Pop Ap, che lo scorso 13 luglio, a Zocca, hanno aperto il mio concerto insieme a Paolo Meneguzzi, “Rock contro pop”. Quest’anno, infine, abbiamo sposato la causa della Croce Verde di Fino Mornasco. Acquisteremo un’ambulanza.
Visto che lo hai nominato, c’è qualche chance che il tuo grande amico Paolo Meneguzzi torni protagonista al festival?
Ci stiamo lavorando. Vorrei averlo il prossimo anno con un concerto tutto suo, fuori dal formato “Rock contro pop”.
Torniamo a bomba. Potremmo definirlo quindi “un festival ribelle contro un sistema malato”?
Sì. Ci mettiamo tutti la nostra arte. E la nostra faccia. C’è anche un po’ di Sanremo in questa rassegna. Io ho partecipato al Festival, Bobby ne ha vinti due, Povia uno.
Anche Sanremo è parte integrante di questo mainstream distorto?
Certo che sì. Non vedi? Le canzoni le scrivono sempre i membri dello stesso circolo. Quelli che un anno sono ospiti, l’anno successivo te li ritrovi in gara e viceversa.
Qual è l’elemento che più ti preoccupa e infastidisce di questo nuovo mainstream?
La finzione. È tutto finto, e la gente se ne sta accorgendo. Io nasco da un sogno molto semplice: fare musica. Quando ho iniziato mi sono scontrato con una realtà molto temprante che per anni era toccata a tutti: mi proponevo alle case discografiche, incassavo i miei no e poi ripartivo. C’erano ancora i direttori artistici, capisci? C’erano dei produttori, degli arrangiatori. Oggi invece c’è il club di cui ti parlavo, non c’è più collaborazione. Vedo questi sold-out fasulli e mi spiace per l’artista, perché so che nel momento in cui non riuscirà più a soddisfare le aspettative della discografica, questa lo terrà per le palle per diversi anni. Per provare a rientrare. Io faccio numeri più piccoli, è chiaro, ma almeno ciò che guadagno resta mio (non nel caso di questo festival, sia chiaro, perché da questi concerti non prendo un euro). E alla fine mi viene da fare una considerazione: il mondo reale siamo noi, il mainstream è un micromondo dopato.
Ma la musica? È in crisi quanto il sistema che la promuove?
Anche il sistema musicale è distrutto. Poche idee, poca musica che ti faccia il solletico al cuore. Una canzone che canta Elodie la potrebbero tranquillamente cantare Annalisa o Giorgia. Una volta, quando Patty Pravo cantava una canzone, lo sentivi che quel pezzo era suo. Stessa storia per Loredana Bertè, Vasco Rossi. Tutte canzoni che avevano stampata sopra la firma di chi le cantava. Ma oggi ai ragazzi mancano i riferimenti, e allora la musica, inevitabilmente, è diventato un comfort piatto. Però basta andare indietro di una ventina d’anni e trovi gente che si formava con John Lennon e i Guns N’ Roses.
E quindi?
Quindi datemi il 30% dell’esposizione mediatica di Elodie e San Siro ve lo riempio anch’io. Parlo così, in modo diretto, perché ho una scuola di musica, canto, danza e teatro, SimoneLab. I ragazzi sono smarriti, hanno biosgno di punti di riferimento saldi e credibili.

