Esce Act II: Cowboy Carter, nuovo attesissimo e quindi chiacchieratissimo - non nel senso di discutibile ma di raccontato - album nuovo di Beyoncé. Album nel quale la nostra star prende letteralmente, letterariamente e fisicamente di petto il country, riportandolo in qualche modo laddove era nato, nella comunità afroamericana. Ne parlano tutti, ne hai già parlato anche tu, quindi cerchi di capire come diamine fare per parlarne di nuovo senza passare per uno che si ripete - lungi da te l’idea di stare nel flusso, signora mia - come se evocare lo spirito di Arbasino servisse a qualcosa in un pezzo che probabilmente leggeranno i fan di Beyoncé o chi comunque è attratto dall’idea di leggere un pezzo su Beyoncé, signora mia. Ti alambicchi, e alla fine decidi che la cosa più saggia da fare è fare quello che fai solitamente, in fondo uno solitamente fa le cose che ritiene gli vengano meglio, o più naturalmente, quindi vai a parlare di te. Lo fai provando a tenere il tutto nascosto, usando la terza persona manco fossi Jay McInerney in Le mille luci di New York, e il fatto che tu vada a citare uno dei tre maledetti del minimalismo americano - minimalismo poi de che non lo hai mai capito - non rende la cosa meno stucchevole. Ma ormai ci sei, non puoi tornare indietro.
Scrivi da circa una trentina d’anni, anzi, da trent’anni esatti, e da che scrivi hai sempre scritto molto. Hai scritto migliaia e migliaia di articoli, anche se non li chiami articoli ma pezzi. Sei fatto così, ti piace gigioneggiare con le parole, e anche chiamandoli pezzi. Comunque, per una decina di anni ha quasi smesso di farlo, riprendendo esattamente dieci anni fa e nel mentre hai sempre continuato a scrivere libri, al punto che ne hai pubblicati novantadue a nome tuo, più una manciata a nome d’altri, quando facevi il ghost writer (ipotizzi che dire che facevi il “negro”, così si diceva ai tempi, oggi non sia più possibile, specie in un pezzo che parli di Beyoncé, e che quindi farà riferimento alla comunità afroamericana). Novantadue cui a breve, diciamo da qui a ottobre, si aggiungeranno altri cinque titoli, al momento in lavorazione o in via di pubblicazione. Quindi, facendo un calcolo veloce, perché è qui che volevi andare a parare, mica a fare una bio - anche se quella di Wikipedia, ti fanno spesso notare, pagina che non hai ovviamente scritto tu, signora mia, è pieno di errori e di mancanze, qualcuno prima o poi dovrebbe metterci seriamente le mani, comunque - novantadue libri, più cinque in lavorazione, più una decina, suppergiù, scritti conto terzi, solo uno di questi, prima o poi, lo vorresti ritirare fuori a nome tuo, quando uscirà dal catalogo nel quale è, più qualche migliaia di articoli, solo da che hai ripreso, il 5 agosto del 2014, sul Fattoquotidiano.it.
Ne hai scritto oltre duemila, tutti assai più lunghi della media, a volte molto ma molto più della media. Stesso discorso che vale per i libri, mai intorno alle cento pagine, in un caso addirittura di quasi tremila. Toh, facciamo un calcolo a spanne, poniamo che tra articoli e libri avrai scritto, e lo hai scritto di sicuro oltre un miliardo di parole. E non hai neanche messo nel conto i post sui social, ora nei fai meno, ma un tempo usavi anche quelli per comunicare a parole, specie Facebook, né quelle che hai detto a voce, quando lavoravi in radio, specie il periodo di Rtl 102.5, o i libri che hai tradotto, comunque usando parole tue per rendere la lingua di quelli che traducevi. Diciamo un miliardo di parole, così, a spanne. Ecco, su questo miliardo di parole almeno la metà, siamo avari, le hai scritte parlando di musica. Forse anche un 60%, diciamo. Bene, di queste seicentocinquanta milioni di parole - provate a visualizzarle, seicentocinquanta milioni di parole - prendendo una media di sei lettere a parola - la parola 'parola' è del resto composta di sei lettere - ti dici, guardando allo schermo del PC sul quale stai digitandole ora, pagina di word, stile Liberation Serif, corpo 15, 100% di resa, sono circa un centimetro e mezzo a parola, fanno cinque miliardi e ottocentocinquanta milioni di centimetri, per intendersi la circonferenza massima della Terra, l’Equatore, misura quarantamila settantacinque e trecentosessant’otto chilometri, che in metri sarebbe quaranta milioni eccetera eccetera. Qui stiamo parlando del fatto che hai scritto in trent’anni, all’incirca, qualcosa come ventuno volte e rotti il giro del mondo solo parlando di musica, Jules Verne levate proprio, che poi ci sarebbe quell’altro 35% non di musica, ma non sei qui per flexare, non è questo il punto.
Ora Beyoncé è country?
Ecco di questi ventuno e rotti giri del mondo che hai fatto a parole parlando di musica, credi, sempre a stime, di aver usato la parola country massimo una cinquantina di volte, e quasi tutte nella biografia di Miley Cyrus che hai scritto ormai dieci anni fa e nel pezzo, che è uscito un paio di settimane fa, qui, riguardo proprio il nuovo imminente (ormai non più imminente, è uscito) nuovo album di Beyoncé. Non hai minimamente intenzione di riprendere questa faccenda dei numeri rispetto a quelle che in qualche modo possono essere considerate recensioni, da anni non scrivi più pezzi che possano essere definite esattamente recensioni, ma anche stando larghi e considerando recensioni anche i pezzi in cui per parlare di canzoni parli d’altro, come quello che stai scrivendo ora e che voi state leggendo ora. Puoi affermare con una altissima possibilità di azzeccarci di non aver mai scritto la recensione di un album di musica country. Mai, neanche una. Lo fai ora, lo hai già iniziato a fare un migliaio di parole fa, sempre per rimanere in tema, perché invece, e su questo potresti davvero flexare, ti piace scrivere di cantanti donne, e di cantautrici ancora di più. Ci hai scritto su libri, diversi, fatto monologhi a teatro, centinaia e centinaia di pezzi, hai organizzato eventi, sei finito dentro tesi di laurea che parlavano di cantanti donne e di cantautrici, e hai da sempre una ammirazione spropositata per Beyoncé, una su cui non hai scritto libri, a differenza di quel che hai fatto su Lady Gaga o su Miley Cyrus, appunto, ma solo perché non è capitato. L’hai anche conosciuta, se così si può dire di chi incrocia lo sguardo di qualcuno in un incontro pubblico, che però non lo vede protagonista e non vede protagonista (neanche la persona con cui incrocia lo sguardo). Era in occasione del lancio dell’album di suo marito Jay-Z, The Blueprint, mi sembra di ricordare, e i due erano una coppia - lo sono ancora oggi - da poco tempo.
Ecco, il marito. Beyocé, ti dici, è una che è stata capace - la sola, pensi - di prendere i tradimenti del marito, per di più con sua sorella, e farne pura poesia e woman empowerment, tutto quello che Beyoncé fa è woman empowerment; del resto, con un occhio di riguardo alla comunità femminile afroamericana, di cui è massimo modello insieme a un manipolo di altre donne di prestigio, penso a Michelle Obama, Shonda Rhyme, Oprah Winfrey. Indubbiamente la cantante afroamericana più influente di sempre, a lei si sono ispirate un po’ tutte quelle arrivate dopo di lei, magari anche estremizzando la sua cifra. Penso a quel manipolo di rapper che rispondono a nomi quali Cardi B, Nicki Minaj, Megan Thee Stallion, ma il discorso vale anche per un’altra star internazionali, per altro che con Jay-Z ha avuto a che fare, come Nicki Minaj, Rihanna, o a nomi più ricercati come Janelle Monae. Tutte sono sorelle minori di Beyoncé, a prescindere dall’anagrafe, ti dici. Anche se a ben vedere pure di lei anche hai sempre scritto poco, meno di quanto avrei voluto, meno di quanto avresti dovuto.
Perché hai spesso parlato di cantautrici, è vero, diciamo che è uno dei tuoi cavalli di battaglia il mondo del cantautorato femminile. Hai quasi sempre parlato di pop, guardando al mainstream, con una particolare attenzione anche all’urban; del resto hai cominciato scrivendo di rap, una vita fa, e Prince è sempre stato il tuo artista preferito, hai anche molto ma molto spesso parlato di corpi di donna nelle canzoni femminili, lamentando gradi assenza in Italia, almeno fino a qualche tempo fa, e usando proprio le artiste americane come modello cui guardare, anche Beyoncè, che in più ha una caratteristica che ti è particolarmente cara. In fin dei conti anche se sei nato nel 1969, sei a ragione spesso canzonato come boomer. Il fatto che Beyoncé parli di corpi, di sessualità - andatevi a risentire Lemonade per farvi una idea a riguardo - pensi, e lei è una donna che ha sempre messo il suo corpo al centro delle sue canzoni, e anche del suo immaginario, senza nascondere il tempo che è passato - a settembre farà quarantadue anni - e neanche l’essere madre di tre figli, Blu Ivy, classe 2008, e i gemelli Rumi e Sir, classe 2017. Questa cosa dei gemelli ti sta particolarmente a cuore, perché anche tu e tua moglie, Marina, avete figli, quattro, di cui due gemelli, Francesco e Chiara; Marina non ha nulla da invidiare a Beyoncè aggiungi, non certo per paraculismo nei suoi confronti, non legge quasi mai quel che scrivi e non c’è certo bisogno che le specifichi quel che già sa.
La rinascita di Beyoncé: il cappello da cowboy
Del resto l’immaginario di Beyoncé, dicevi, sul suo corpo statuario e così prepotentemente femminile ruota, mica è un caso che nel suo ormai penultimo album, Renaissance, posava seminuda come Lady Godiva in sella a un cavallo di luce. Stavolta, Act II: Cowboy Carter il titolo: lo hai detto subito, a scanso di equivoci, per la gioia di chi si occupa di SEO, per una volta non canzonato dal tuo modo di scrivere così egoriferito, anche se ci tieni sempre a dire che di te, nei tuoi scritti, in realtà non ci finisce nulla, quello è un avatar (come è un avatar la Beyoncé col cappello da cowboy, in sella a un cavallo vero, bianco, che impenna, sempre che si dica impennare anche riguardo i cavalli). Di cavalli hai scritto spesso, ma quasi sempre per dire cose disdicevoli. Lei vestita da cowgirl, coi colori della bandiera americana, anche se più presumibilmente l’omaggio è al suo Texas, la cui bandiera ha gli stessi colori; seduta di lato, come un tempo si vedeva fare alle donne che sedevano dietro sulle Vespe o le Lambrette, guardando dritto in camera, una bandiera sulla mano sinistra, le briglie sulla destra. Una cowgirl, nonostante il titolo dell’album faccia riferimento ai cowboy e metta lì quel dettaglio, Carter, che è il cognome da sposa, quello di Jay-Z, che potrebbe tradire una qualche sottomissione che, ascoltate i testi di Beyoncé, assolutamente non è parte della sua poetica.
Avevi apprezzato di più la cover di Texas Hold ‘Em, su tinte nere laddove qui siamo su tinte bianche, e dire tinte fa quasi ridere, perché di nero c’era giusto un capello, da cowboy, ovviamente (vorresti dire da cowgirl, ma dire cowgirl ti fa troppo venire in mente “Cowgirl il nuovo sesso”, e per te “Cowgirl il nuovo sesso” equivale al romanzo di Tom Robbins prima ancora che al film di Gus Van Sant, con una Uma Thurman da standing ovation, e star qui a sottolineare che un romanzo ti viene in mente prima di un film sarebbe sì flexare, e al tempo stesso dire una ovvietà, “era meglio il libro” è frase da meme, quindi dici cowboy e morta lì). E di nero, dicevi, c’era giusto il cappello da cowboy e un giubbettino di pelle tenuto debitamente aperto, un bichini fatto di specchietti, due a coprire le tette uno a coprire il monte di Venere, specchi neanche troppo metaforicamente per le allodole - Beyoncé è un genio, andrebbe riconosciuto - a fare il resto. Nel video di Texas Hold ‘Em, minimale, il look era giocato su carte simili, ma non uguali. Il giubbetto di pelle era stato sostituito da uno spolverino di pelle senza maniche, aperto sui seni nudi, mai esibiti, i social avrebbero messo la censura, alla faccia del Free the Nipple. I capelli erano raccolti in una coda, senza cappello in testa, e una mutanda nera su calze scure faceva il resto. Un patch argentato sull’occhio sinistro, sopra occhiali da sole a forma di occhio di gatto a coprire il destro. Un video in loop, con Beyoncé che arrivava, camminando felina, per poi sparare con le dita a pistola alla sinistra, per i quasi quattro minuti di canzone, altra forzatura che solo Beyoncè si può permettere in epoche di Tik Tok e distrazione dovuta alla ipervelocità. Ecco, pensi, mentre intorno a noi è tutto un giocare su suoni elettronici, vedi alla voce urban o trap, zero strumenti, tanto autotune, esibire violini, banjo, batterie vere, chitarre acustiche, canzoni cantate è come far vedere cosa c’è sotto un vestito, con orgoglio e senza tanti barbatrucchi. Questo se lo può permettere una come Beyoncé (è vero, se l’è permesso ai tempi di Don’t tell me, album Music, Madonna, ma era una sola canzone e lei è bianca, si sarà notato, e poi in qualche modo la Lady Gaga di Joanne, idem come sopra, ma una mega popstar afroamericana, diciamolo, no).
Act II: Cowboy Carter: l’ascolto
Act II: Cowboy Carter ora è fuori, alla mercé di chi vorrà ascoltarlo. Io ne sto parlando, sì, quel tu alla Jay McInterny ero in realtà io, scoop, io ne sto parlando, dicevo, so che potrebbe non sembrare, da un numero piuttosto elevato di parole. Sto parlando di un album country di una artista del pop, una artista afroamericana che, seppur del Texas, quindi in parte giustificata dalla geografia, ha voluto rivendicare una maternità del genere da parte della sua gente. Ci ho fatto ventuno volte e passa il giro del mondo prima di arrivare a scrivere una recensione di un disco di country, attratto forse da quello specchietto per le allodole, allodola io. Qualcosa vorrà pur dire, mi dico, e cioè che Beyoncé, ancora una volta non ne sbaglia una, anche a livello di estetica. E non me ne voglia Ottaviano Cappellani, ma non c’è proprio storia, Beyoncé anche su questo le batte tutte, altro che turbofregne. Cowboy Carter, per altro, di giri della Terra ne fa parecchi anche lui, ventisette canzoni in tracklist, senza skit o altro, ventisette tracce, di cui ventuno canzoni vere, anche se quando durano poco, meno di un minuto, in alcuni casi (vedi My Rose, per citarne una, o Flamenco) sono pur sempre canzoni canzoni, ripeto. Country, appunto, per come lo può intendere una artista poliedrica come Beyoncé, certo, ma assolutamente dentro i canoni. Solo che a fianco ai canoni del country, e qui più che meraviglia ci sta un plauso, anche piuttosto corposo, c’è la commistione coi generi che la nostra ha praticato in passato, dai cori souleggianti che si fanno gospel, che già si sentono nella cavalcata epica di American Requiem, prima traccia di oltre cinque minuti e mezzo, country cantato con la sua potente voce black, un modo per introdurci nel suo mondo da vera regina, quale Queen Bey in effetti è. Mondo che torna imperioso in tutto questo lavoro, diciamolo apertamente, che fuga ogni dubbio su chi sia la numero uno al momento al mondo: non ce ne voglia Taylor Swift, sentitevi qualche traccia a casa, che so?, Ya Ya, con sample di Nancy Sinatra come dei Beach Boys di Good Vibrations, per credere.
Impossibile, oltre che inutile, star qui a commentare le ventisette tracce uno per uno, anche perché a rischio di un ventiduesimo giro dell’Equatore, ma non si possono almeno parlare di alcuni brani, a partire dalle ocver di Blackbird dei Beatles, per sola voce acustica e cinque voci, la sua, ovviamente, più quelle di Brittney Spencer, Reyna Roberts, Tarner Adel e Tiera Kennedy, un gioiello di eleganza e delicatezza, o la Jolene di Dolly Parton, introdotta da uno skit della medesima dal titolo Dolly P, aderente in tutto e per tutto al canone country, le chitarre acustiche a reggere il tutto intorno alla sua voce, una armonica a bocca a lamentarsi lontana. Non ha senso farlo, le tracce sono lì pronte per essere ascoltate, ma qualcosa tocca pur dire. E quindi come non citare Protector, ballad acustica che la vede cantare in compagnia di Rumi Carter, sua figlia, gioiellino di intimità? Intimità che torna poi in Daughter, traccia numero undici, sempre aderente ai canoni del genere, anche con quella anomala citazione di Caro mio ben di Giuseppe Giordani, compositore napoletano del XVIII secolo, una perla preziosa. L’accostamento con la successiva Spaghetti, chiaramente con riferimento al genere filmico degli Spaghetti western, forse ironico. Questo brano, con la presenza vocale di Linda Martel, antesignana nel country della comunità afroamericana, almeno a livello discografico, di come il country sia materia afroamericana si è già detto in precedenza, quando sono usciti i primi due singoli, presenza fondamentale nel momento in cui l’anziana artista dice “Genres are a funny little concept, aren’t they?” says Martell. “Yes they are. In theory, they have a simple definition that’s easy to understand. But in practice, well, some may feel confined,” bel modo per tappare la bocca ai tanti puristi con il ditino alzato. Un brano, Spaghetti, nel quale il country lascia spazio all’urban, il flow rappato e al tempo stesso di Beyoncé, come quello souleggiante di Shaboozey, artista alt-country qui in gita fuoriporta, portano decisamente in altri lidi, perché Beyoncé può fare in fondo quel che vuole. Decisamente più in linea Bodyguard, Alligator Tears, per dire, pur con un uso delle voci decisamente black, armonizzazioni che potrebbero serenamente stare dentro un album di R&B, come di urban. Dalla traccia tredici alla traccia diciassette succede qualcosa, decisamente, perché Beyoncé chiama raccolta degli amici, e tira fuori le unghie. Prima c’è il Willie Nelson, con un suo secondo skit (il primo era alla traccia sei), ma nella traccia Just For Fun al suo fianco c’è Willie Jones, per una ballad pianistica in odor di chiesa, con coro gospel e tutto, la sua voce cristallina e calda a intrecciarsi con quella altrettanto calda, ma di cartavetrata del collega. Il Most Wanted, immagino, sarà uno dei brani più ascoltati di questo 2024, perché a fianco di Queen Bey c’è nientemeno che Miley Cyrus, regina di ascolti nel 2023 con la sua Flowers, una che nel country c’è nata e cresciuta. Due regine che duettano senza uccidersi a vicenda, Beyoncé lo aveva già fatto in passato con Shakira o Lady Gaga (ai tempi di Telephone il video diceva “To be continued”, chissà se prima o poi), per dire, tirando fuori una vera mina da ascoltare nelle notti di automobile, poco importa se lungo le strade dell’Alabama o del Molise. Per altro, la voce di Miley, più scura di quella di Beyoncé, sta perfettamente al suo fianco, come se non avessero fatto altro che cantare insieme da sempre, probabilmente una delle canzoni più bella di questa covata, anche se mancano ancora undici tracce alla fine.
Non che la successiva, Levii’s Jeans, con Post Malone, sia da meno. Una mid tempo che poggia su un giro di chitarra semplice ma efficace, che ci racconta una storia decisamente meno mistica che in precedenza, perché il country è sì preghiera a Dio, ma anche musica da festa, qui diciamo che siamo più dalle parti di quel che succede una volta finita la festa. Post Malone in perfetta forma, come il culo di Beyoncé dentro i suddetti jeans, per citare il testo. Insomma, senza neanche uno scivolone, direi assolutamente tanta roba, considerando la potenza muscolare delle ventisette tracce, Cowboy Carter, album sì country, ma non solo country, sentire Riverdance se cercate un Bignami del tutto per farvi un’idea, è qualcosa di più di un album, fatto di per sé rivoluzionario nell’epoca di un “singolo al mese” evocato da Daniel Ek di Spotify, la copertina, accusata da Azaelia Banks di mostrarci una artista afroamericana in abiti da cosplay di donna bianca, in realtà è un bel richiamo a farsi sentire alle prossime elezioni presidenziali, non è che quella bandiera americana stia lì per caso, niente è per caso quando si tratta di Beyoncé. Alla fine di country ho parlato, in questo pezzo la parola è citata diciassette volte, diciassette su tremiladuecentosettantasette, non male direi, ma questo è un lavoro di cui si tornerà a scrivere a lungo, credo, importante per la comunità afroamericana, come quasi sempre quando a muoversi è Beyoncé, ma per l’America tutta, che nelle artiste donne del pop sta trovando una insolita spinta politica, a aprile sarà la volta proprio di Taylor Swift, vedremo se anche lei sarà capace di dire qualcosa di rilevane a riguardo. Sulle note della conclusiva, misticheggiante Amen, mi ritrovo, a treminaquattrocentocinquantaquattro parole dall’inizio di questo pezzo, che hai iniziato senza sapere esattamente dove la scrittura ti avrebbe portato a parare, a sottolineare come questa non sia una recensione, genere canonizzato nell’Ottocento, ma, ahinoi, mandato in pensione dallo streaming. Una prece. Per ora Cowboy Carter è arrivato in città, come certi tagliatori di teste nei film western, e spiace dirlo, ma non ce n’è proprio per nessuno.