Il problema di Unica è che non è uscito negli Usa. Fosse uscito oltreoceano, sarebbe stato un trionfo. Ancora intossicati dalle scorie del ventennio berlusconiano - più lente a scomparire che quelle nucleari nel suolo di Chernobyl - in Italia crediamo ancora che l’oggetto sociale di un documentario prodotto per la Tv non sia lo spettacolo quanto “la verità oggettiva”. Che la Tv, insomma, non serva a intrattenere ma possa ambire ad educare. E così, i nostri media sono inquinati dall’onnipresente morbo del “contradditorio”: ogni volta che qualcuno dice “pari” deve esserci di fianco un tizio a dire “dispari”, o non siamo contenti. Non è così che ragionano gli streamer a stelle e strisce, a cui della verità assoluta non potrebbe interessare di meno. I documentari, nell’accezione che Netflix o Amazon Prime hanno dato a questa parola, non hanno nessuna volontà di dare una rappresentazione oggettiva dei fatti. La loro ambizione è fare spettacolo, tenere la gente incollata allo schermo il piu’ a lungo possibile con qualsiasi mezzo, utilizzando come base di partenza non una storia di finzione, ma una storia “ispirata a” fatti reali. Facciamo alcuni esempi. Making a murderer (Netflix) è il documentario a puntate che ha lanciato il genere true crime a livello internazionale. Basta fare una rapida ricerca su Google per leggere numerosi fatti bellamente ignorati dalla serie, non per dimenticanza ma perché per nulla funzionali al tipo di racconto proposto: siccome l’opera puntava a dimostrare l’innocenza di Steven Avery, accusato di aver ucciso la fotografa Teresa Halbach, il fatto che Avery, un giorno, si fosse presentato dalla vittima coperto solo da un accapatoio striminzito, con le pudenda mezze al vento, non fu nemmeno menzionato. E fa nulla che la famiglia della Halbach consideri oggi questo - e altri episodi - come prove a conferma della colpevolezza di Avery: tanto nel documentario nessuno dei parenti viene intervistato. Altro esempio: Nobody speak (Amazon Prime), documentario di enorme successo presentato al Sundance 2017 sulla chiusura del blog di gossip Gawker per effetto di una causa milionaria intentata al sito dall’ex wrestler Hulk Hogan. La tesi del documentario era dimostrare la stretta liberticida imposta ai media da alcuni membri dell’establishment dell’appena insediata amministrazione Trump: di conseguenza, Hogan in tutta l’opera non viene intervistato, e le sue ragioni (piuttosto valide) neppure menzionate. Ultimo esempio, più frivolo: The super models, serie uscita di recente per Apple Tv+, dedicata alle quattro “supermodelle” degli anni Ottanta: Naomi Campbell, Cindy Crawford, Linda Evangelista e Christy Turlington. Se vi sembra manchi qualcuna, avete ragione: manca una certa Claudia Schiffer, vera e propria icona del periodo, che delle super model era la più nota (sicuramente più della Turlington). Siccome la Schiffer non ha partecipato al progetto perché non interessata, la sua intera carriera scompare, e nelle quattro puntate si racconta la moda negli anni Ottanta, Novanta come se lei non fosse mai esistita. È per questo che parlare di “docu-POV” o lamentarsi dell’assenza di contradditorio è fuorviante: sotto la patina del documentario si celano prodotti atti a celebrare figure o fatti in grado di autorappresentare una società in un preciso momento storico. Unica si inserisce esattamente in questo contesto, dando origine, a parere di chi scrive, a uno straordinario racconto sul matriarcato. Un racconto lucido e patinato, dove ad assumere le vesti del coro nella tragedia famigliare della Blasi sono ora le due sorelle, Silvia e Melory, ora il gruppo di amiche con cui programma gite a Londra, ora la madre Daniela, che abita a dieci passi da casa della figlia e che è la prima che Ilary chiama quando decide di affrontare la questione dei tradimenti con il marito. Donne sensibili, intraprendenti, energiche, al contrario degli uomini, che in Unica appartengono tutti a una tribù ben definita: quella dell’homo italianus, versione regredita dell’homo sapiens, dal taxista romano beone fino all’investigatore che si fa beccare, per arrivare a Sua Maestà Francesco, l’uomo che ha goduto della migliore stampa possibile per vent’anni, il campione ma anche l’uomo di spettacolo ma anche il padre e marito ideale, descritto come mai, prima, nessuno aveva avuto il coraggio di fare. L'intervistarore, rivolgendosi a Ilary: “Tu inizi a fare carriera quando lui va in pensione”. Ed è proprio qui il cuore del documentario, quella verità sussurrata, cui nessuno ha prestato orecchio: quando Totti smette di giocare la sua vita sembra finita, mentre quella di Ilary procede a gonfie vele, in una città che non è Roma e con uno show in prima serata.
Lui, l’ex Re di Roma, santificato dalla triplice benedizione di un libro divenuto un documentario divenuto una serie Tv – Speravo de morì prima – si ritrova a divenire un’icona del passato, come quei tondi con cui si celebrano gli ex Papi nella Basilica di San Paolo Fuori le Mura, a Roma. Ed è qui che va ricercata la rottura: nell’incapacità del maschio alphissima di passare la mano, di accontentarsi d’essere un Fedez di sua moglie. Straordinario, inoltre, il racconto di Ilary sul famoso caffè che avrebbe preso col personal trailer. Totti lo scopre, la affronta, chiede conto: Ilary risponde non negando, ma ricordando le volte in cui era stata lei a scoprire di caffè presi dal marito con donne diverse. Ilary aveva preferito tacere per calcolo prudente, per non rischiare di compromettere il legame. Straordinario, perché costituisce, in Italia, un esplicito e rarissimo tentativo di superamento consapevole della monogamia – che ovviamente il marito, da bravo homo italianus, si dimostra completamente incapace di accettare. Straordinario, perché ricorda da vicino la scena finale della prima stagione di The Crown, quando la giovane regina Elisabetta e suo marito Filippo decidono, per il bene della coppia e quindi della credibilità della corona, di “non cercare più nei posti sbagliati”, lasciando a ognuno la propria privacy, accettando tacitamente un futuro da coppia aperta. È davvero un peccato, allora, non poter tributare a Ilary la standing ovation che avremmo voluto tributarle. Non possiamo perché non abbiamo dimenticato quanto accadde molti anni fa, precisamente nel 2005, tra lei e Flavia Vento. Si trattava, certo, di una faccenda delicata e dolorosa: la show girl rivelava di aver avuto una storia con Totti poco prima che Ilary partorisse il primo figlio. E nel farlo, aggiungeva di aver subito minacce di ogni tipo, anche di morte, da parte di ambienti vicini al tifo giallorosso, per essersi permessa di aver compromesso la tranquillità coniugale dell'ex Pupone. Ebbene: a distanza di anni, visto quello che è successo nella sua vita privata e che, contemporaneamente, è accaduto nel Paese per quanto riguarda il tema della violenza sulle donne, cosa pensa Ilary di questa vicenda? La giudica ancora nello stesso modo sprezzante con cui ne ha parlato ogni volta che Fabrizio Corona – con modi forse discutibili nella forma, ma impeccabili nella sostanza – glielo ha ricordato in questi anni? Come vive il fatto che una donna abbia sostenuto di essere stata minacciata di morte per aver rivelato di aver avuto una storia col suo ex marito? Non crede che sarebbe stato meglio verificare in modo serio – anche alla luce dei rapporti molto stretti che in una città come Roma certi rappresentanti della curva hanno con i calciatori? Non pensa che, se Flavia Vento avesse detto il vero, saremmo di fronte a un caso di violenza gravissimo? Cara Ilary, va bene fare i conti con il tuo ex marito. Ma ora, per coerenza, è arrivato il momento di farli anche con Flavia Vento. Ne va della tua credibilità.