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In ricordo di Libero De Rienzo: il documentario e il secondo capitolo di Santa Maradona. Intervista al regista Marco Ponti

  • di Domenico Agrizzi Domenico Agrizzi

  • Foto: Ansa

28 ottobre 2025

In ricordo di Libero De Rienzo: il documentario e il secondo capitolo di Santa Maradona. Intervista al regista Marco Ponti
Abbiamo chiesto a Marco Ponti un ricordo di Libero De Rienzo, in occasione dell’anteprima di Libero - Sempre comunque mai alla Festa del cinema di Roma. Il regista ci ha detto che insieme a Libero aveva pensato anche a un secondo capitolo di Santa Maradona. E ne La bella stagione, sulla Samp di Vialli e Mancini, quell’idea in qualche modo ci è finita dentro. Ecco l’intervista

Foto: Ansa

di Domenico Agrizzi Domenico Agrizzi

Marco Ponti lo ha conosciuto davvero Libero De Rienzo. Lo ha fatto sul set di Santa Maradona. Ma tra i due il rapporto andava oltre il cinema. Per Marco Ponti, Libero era un amico, non solo un attore. Ce ne ha parlato lo stesso regista e ci ha raccontato di come i due avessero anche pensato a un secondo film, sempre con protagonisti Andrea e Bart. E magari Libero avrebbe interpretato un poliziotto. Santa Maradona, però, un seguito l’ha comunque avuto ne La bella stagione, in cui Ponti ha raccontato la grande Sampdoria campione d’Italia e i gemelli del gol, la coppia Vialli-Mancini. Libero - Sempre comunque mai è un documentario presentato alla Festa del cinema di Roma: è quello il punto di inizio della nostra conversazione.

Libero De Rienzo
Libero De Rienzo Ansa

Marco Ponti, come hai vissuto la proiezione?

È stata una serata molto emozionante, con tante persone che si sono ritrovate per ricordare Libero. Si dice spesso che il cinema italiano ha perso un grande attore, una persona che stava operando una trasformazione importante dal punto di vista artistico e che stava diventando un regista. Ma io metto in primo piano quello che era per me: un amico. Vorrei staccarlo da quei ragionamenti legati al cinema. L'altra sera eravamo tutti concordi nell’individuare la sua caratteristica fondamentale: Libero era una persona profondamente buona. Aveva un'enorme capacità di voler bene e di valorizzare le persone che aveva accanto. Quindi per tanti amici lui era anche uno sprone a diventare migliori.

Un’altra sua caratteristica che ricordi?

Era difficile andare a trovarlo e tornare poi a casa senza un regalo. Se un oggetto ti incuriosiva o un libro ti interessava lui te lo dava. È una cosa molto bella. Perché non era il tipo che andava a comprare dei regali: erano sempre cose sue.

Di chi se ne va come lui si ricordano la fragilità o la debolezza. Il tuo ricordo, invece, va oltre.

Io non ci ho mai visto nessuna debolezza. Vedo eventualmente il fatto che nel mondo in cui era immerso, che stava uscendo dalla pandemia, c'era una sorta di promessa un po' patetica verso il futuro. In realtà mi sembra che dalla fine della pandemia sia andato tutto male. Ecco, diciamo che uno come lui non poteva trovare un posto comodo in quel mondo, avrebbe fatto fatica ad adattarsi. Era così anche nel cinema, perché aveva un talento enorme e complicato da incasellare.

Prima delle battaglie di oggi, ai David di Donatello del 2002, ha parlato di Palestina.

Quello è un momento che dovrebbe essere più o meno di svago, ma lui decise di parlare di politica, e molti furono urtati dal suo discorso. Lui l’ha fatto, contro tutto e tutti, come diceva Fabrizio De André. Era vent’anni avanti. Libero era davvero il simbolo del non essere adatti. Anzi, era “quasi adatto”, per citare un libro di Peter Høeg.

In quel “quasi”, forse, c’è molto del personaggio di Bart, no?

È stato strano perché quel personaggio ovviamente preesisteva all'incontro con Libero De Rienzo, ma adesso mi sembrerebbe impossibile fare quel film con un altro. Mi sembra veramente inconcepibile. È stato un incontro molto felice, fortunato, perché capita forse una volta nella vita di incontrare il tuo alter ego, cioè un altro io, qualcuno che ha fatto delle cose che io non avrei mai avuto il coraggio di fare.

Dopo il film, quando vi ritrovavate, qual è la cosa che ricordavate più volentieri?

Una cosa che gli era piaciuta molto di Santa Maradona era stato il rapporto di grande cameratismo e di grande sinergia con tutte le persone della troupe. Noi non pensavamo alla struttura classica e gerarchica del cinema: Santa Maradona era anche un esperimento di collettivismo. Di solito sui set a fine giornata si valuta il materiale girato in maniera riservata, perché è un semilavorato del giorno. Noi all'epoca avevamo deciso che ce lo vedevamo tutti insieme con la troupe. Ognuno aveva un'opinione, poteva dare dei suggerimenti e dei giudizi. Libero si era trovato perfettamente a suo agio.

Come si poneva nei confronti degli altri professionisti sul set?

Si era innamorato del loro lavoro, tant'è che veniva sul set anche i giorni in cui non era convocato e lavorava come assistente operatore di macchina o dava una mano ai macchinisti. Aveva questa cintura dove portava gli strumenti e ogni volta che qualcuno vedeva un oggetto che gli piaceva lui glielo regalava. Abbiamo passato il tempo in ferramenta a comprare cose che continuava a dare agli altri.

Lui come ha approcciato al personaggio di Bart?

Bart non è nato a tavolino, dalle mie indicazioni meccaniche, ma proprio in quei momenti in cui noi non ci stavamo occupando del film. Camminavamo spesso insieme, lui abitava a casa mia, i tempi erano quelli. Libero diceva che il cinema si fa con il sangue e la saliva.

Tornando a quello che hai detto all’inizio, possiamo solo immaginare come una persona così possa aver sofferto durante la pandemia.

Sì. Tra l'altro era anche un momento in cui eravamo abbastanza lanciati, gli avevo anche dato una mano nell'organizzazione di un videoclip per Willie Peyote. Vederlo su un set era un piacere, perché vedevi un professionista felice di essere in quel posto. Poi stava scrivendo un film, ne stavamo scrivendo un altro insieme. Stavamo persino favoleggiando, ma non ho mai capito bene quanto ci credevamo o quanto giocavamo, la scrittura di un seguito, vent'anni dopo, di Santa Maradona. Come se fosse una molla che tu schiacci ed è pronta a saltare. Ma il mondo si è fermato, è stata una disgrazia per innumerevoli persone. Tutto il what if successivo ce lo possiamo solamente immaginare.

Questo secondo Santa Maradona come ve lo eravate prefigurati?

Non volevamo un produttore che ci dicesse cosa fare. Volevamo essere liberi di scrivere. Dicevamo per ridere che avremmo sicuramente tirato fuori una caz*ata totale e che non l’avremmo mai fatta leggere a nessuno. Avremmo scritto solo per il desiderio di scrivere. Non volevamo raccontare che cosa era successo tra il primo e il secondo film, ma saremmo partiti da un'istantanea della contemporaneità. Una delle cose che ci affascinava riguarda il personaggio di Bart, che dopo il 2001, in maniera totalmente imprevedibile, decidesse di diventare poliziotto. Era una cosa su cui stavamo lavorando. Diventare poliziotto per capire, dopo Genova, come funzionava quella parte della società. È il classico ragionamento alla Bart: il salto mortale. Cambiare punto di vista per capire.

Sbriciare sempre oltre il muro, quindi.

Sarebbe stato uno di quei poliziotti che viene preso a botte da quelli che dovrebbe arrestare ma che alla fine non vuole neanche mettere nei guai. Il nostro era un tentativo di ragionamento. Altre cose non le ho mai raccontate per il semplice fatto che quel film non si farà mai. Non sarà mai letto da nessuno e non esisterà mai. Tanti mi hanno detto di pubblicarlo, di farlo diventare un fumetto o altro, ma io ho sempre rifiutato.

Ci metti mano, anche per te stesso, quando sei da solo?

No, non la tocco più. Non c'è più nulla da toccare in quella storia. Semplicemente non si può.

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Il regista Marco Ponti Ansa

Quel cortocircuito di cui abbiamo parlato tra ordine e spontaneità trova manifestazione, per esempio, nel calcio. E la grande Sampdoria che hai raccontato nel documentario incarna questa idea: anche quella è una storia un po’ imprevista.

Ho iniziato a lavorare a La bella stagione la settimana dopo che è mancato Picchio. È proprio un passaggio. Come se Andrea e Bart fossero diventati Roberto e Gianluca, i gemelli del gol. Mi viene da sorridere al pensiero che, tutto sommato, il seguito di Santa Maradona l'ho già fatto, almeno metaforicamente.

Il disordine, in un certo senso, di quella squadra è stato fondamentale per il loro successo.

È vero, ma era un disordine abbinato a una certa dose di, altrimenti è un caos solo velleitario di gente che fa festa come tanti. Una squadra con due leader così era inimmaginabile, forse lo sarebbe anche adesso. Ma i gemelli del gol esistono se poi il gol lo fai e se il campionato lo vinci il campionato.

Nel film Paolo Condò fa una riflessione molto significativa: gli stessi giocatori sapevano che non sarebbero durati per sempre tutti insieme.

Come dice giustamente Paolo, era una squadra con una data di scadenza. Quella squadra, con classe e consapevolezza, ha tentato di fare una cosa impossibile. È una storia esemplare, come se avessero detto: forse va male, ma tentiamo di farlo lo stesso. Che poi era il sogno di Andrea e Bart in Santa Maradona. Ma sì, diamoci da fare, proviamo a cambiare le cose. Questo è il concetto di ordine a cui mi riferivo prima: il voler mettere ordine a questo mondo in cui si siamo trovati a vivere.

Il presidente Mantovani in un'intervista che hai inserito nel film dice che la Samp voleva portare un sentimento nel calcio. Quello è il perno di tutta la storia.

È la chiave assoluta. Se mi chiedessero, a forza, di rivedere due dei miei film direi sicuramente Santa Maradona e La bella stagione. Di quelli non mi stufo. A posteriori è bello vederci anche una sorta di continuità tra le due opere.

Nei documentari sulle squadre di oggi si parla solo della “cavalcata”. Tu invece ci hai messo delle cose che contano davvero in un racconto: come quando Mancini ha chiesto di giocare con la maglia di cachemire perché l’altra gli dava fastidio.

Ora emerge il vincere sempre e a ogni costo. Anche quella Samp voleva vincere, perché stiamo parlando di grandi atleti, ma non a ogni costo: vinciamo con le nostre regole, anche costruendo un mondo che gli altri considerano sbagliato. Se pensiamo alle volte che Agnelli e Berlusconi hanno cercato di comprarseli, i gemelli del gol. Loro avevano fatto un patto: non sarebbero andati via fino alla vittoria dello scudetto. Oggi nel mondo dei capitani di ventura sarebbe una bestemmia, una follia, autolesionismo. Quella è stata una bella stagione della nostra vita.

Prima quando hai parlato del modo in cui avete lavorato a Santa Maradona con i vostri colleghi ho pensato ai racconti sul Corinthians di Socrates.

Che poi non vuol dire che siamo tutti generali, perché poi è difficile da gestire. C’è una cosa bellissima che diceva Gianluca Vialli: abbiamo il diritto a dire stupidaggini. Cioè, non dobbiamo essere angosciati da dover fare un'affermazione intelligente, giusta, ficcante. Abbiamo diritto di dire una stupidaggine perché in quel momento la pensiamo e nessuno ci può riprendere perché l’abbiamo detta.

Con Libero parlavi di calcio?

Non tantissimo. Lui mi ricordo che era abbastanza anti-Juventino e quindi per girare la scena in cui andavano allo stadio a vedere la partita si era rifiutato di mettere la maglia bianconera e aveva chiesto di mettere quella di un giocatore della Juve, ma della nazionale, ovvero Davids. Libero aveva una certa simpatia per Napoli, ma era tifoso della Roma. Santa Maradona è uscito lo stesso anno dello scudetto della Roma. Stare con un romanista in quel momento vi assicuro che era complicato (ride, ndr). Non abbiamo mai litigato, però ad un certo punto si parlava d'altro.

Anche perché bello il film collettivo, però ad un certo punto lo dovevi anche portare a termine, no?

Poi non esageriamo, anche i gemelli del gol possono evitare certi argomenti per rimanere i gemelli del gol.

Alla fine sono due film che davvero si parlano.

Pensare che Santa Maradona abbia generato La bella stagione quasi mi commuove. È la prova che le cose trovano il loro posto, anche in maniera estremamente dolorosa. Come se ci fosse un ordine superiore dei nostri destini. Vederla così ci toglie alcune amarezze. Nel documentario a un certo punto dico che non passa giorno senza che io non pensi almeno una volta a Picchio. Mi ero dimenticato di averlo detto e mi sono un attimo vergognato. Ma è verissimo, penso a lui ogni giorno. All'inizio mi faceva male, mentre adesso convivo con questo pensiero con una certa dolcezza.

Come mai te ne vergognavi?

Perché sono piemontese e noi piemontesi abbiamo sempre il terrore di sembrare patetici.

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