C'è un semplice problema di fondo quando si affrontano temi come la verità, la giustizia, il bene, il senso del dovere. Tutto è noioso. Le persone sono naturalmente più attratte dai criminali, dai cattivi. Se si parla di politica, però, bisognerebbe fare qualche considerazione in più. A partire dal personaggio. Nel 2021 la casa editrice La nave di Teseo pubblica in Italia “Le nostre verità”, l'autobiografia di Kamala Harris. Ora che la vicepresidente, dopo il ritiro di Joe Biden, ha guadagnato il posto da sfidante ufficiale di Donald Trump, abbiamo pensato che fosse ora di leggerlo. Con tutte le premure del caso, perché con le autobiografie c'è sempre il rischio di trovarsi di fronte a un polpettone agiografico, celebrativo. Soprattutto se si tratta di politici, che sulla propria caratterizzazione ci costruiscono la carriera. E se Trump è il cattivo, quello che dice le cose che nessuno vorrebbe sentire, Kamala Harris punta su altro. La verità. Meglio, le verità al plurale, quelle che danno il nome al libro, e che vengono enumerate subito, a freddo, nell'introduzione, che poi è il capitolo del libro che più assomiglia a un comizio. Compreso il racconto del pacco maxi di Doritos mangiato da Kamala dopo essere stata eletta senatrice, che poi è forse l'unico momento per cosi dire populista dell'autobiografia, perché per Kamala Harris la vicinanza all'elettorato non si esprime con il junk food, ma con la serietà dei problemi politici.
Le verità di Kamala Harris sono verità politiche, come è giusto che sia. “La nostra battaglia deve iniziare e finire con il dire la verità”, come dovrebbe essere in un qualsiasi rapporto di fiducia. Le verità di Kamala Harris sono i problemi con cui ha a che fare un’America che ha deciso di dare fiducia a Donald Trump, e che potrebbe essere pronta a dargliela ancora una volta: “Il razzismo, il sessismo, l’omofobia, la transfobia e l’antisemitismo sono qualcosa di reale in questo Paese”, bisogna prenderne atto per rendersi conto che “Siamo meglio di così”. Il razzismo non ha senso, afferma Kamala, e ne ha ancora meno in America dove nessuno, a parte i nativi americani, può fare a meno di sentirsi un immigrato. Un’altra verità è il problema della sopravvivenza economica della middle-class: “I salari non aumentano da quarant’anni, nonostante i costi dell’assistenza sanitaria, dell’istruzione e delle case siano schizzati alle stelle. La classe media tira avanti stipendio dopo stipendio”. La verità del sovraffollamente delle carceri, della brutalità della polizia, le industrie farmaceutiche che hanno incoraggiato l’uso di oppioidi, le “società ingorde e predatorie, che hanno trasformato la deregolamentazione, la speculazione finanziaria e la negazione del cambiamento climatico in un vero e proprio credo”. Gli stessi problemi che abbiamo in Italia, palesemente. Le stesse verità. Ma il libro è un’autobiografia e non un comizio, e Kamala Harris racconta la storia della sua nascita e crescita politica lasciando parlare i fatti, ovvero la sua lotta, personale e istituzionale, contro questo genere di problemi.
C’è l’infanzia: i genitori entrambi immigrati, il padre giamaicano e la madre indiana, si conoscono mentre studiano a Berkeley. Quando Kamala ha solo 7 anni divorziano. I racconti della scuola, l’attivismo nel DNA della famiglia: il nonno aveva partecipato al movimento per l’indipendenza indiana, i genitori che la portano ancora in passeggino alle manifestazioni per i diritti civili. Il racconto della sua infanzia, compresa un'infatuazione giovanile per Tito Jackson, fratello di Michael, è uno spaccato di vita americana nei primi tempi della desegregazione razziale, e vale la pena di leggerlo. Quando frequentava la scuola media Kamala Harris è costretta a trasferirsi dalla California a Montreal, in Canada, dove racconta di aver ottenuto una delle sue prime battaglie politiche: con la sorella protesta contro un divieto di giocare a pallone nel prato, ed è felice di poter dire che “Le nostre richieste vennero accolte”. La sua prima esperienza seriamente politica fu però più avanti, nel 1988, di ritorno in California. Uno stage universitario estivo al Tribunale superiore della contea di Alameda, a Oakland. In quell’occasione, racconta Kamala, durante una retata antidroga viene catturata anche una ragazza innocente. Era venerdì sera e l’imputata, che tra l’altro aveva anche dei figli, rischiava di dover passare l’intero weekend in carcere, senza motivo. La Harris racconta di essere riuscita, supplicando il giudice, a far iscrivere a ruolo la causa entro la fine del giorno, lasciando libera la ragazza. “Stavo diventando consapevole del tipo di lavoro che volevo svolgere, e di chi volevo servire”, cioè il popolo. Lo stesso vale per il suo lavoro come funzionario in tribunale, dove impara il “dovere di proteggere coloro che erano tra i più vulnerabili e senza voce nella nostra società”. Poi viene il lavoro nell'ufficio del procuratore distrettuale, prima ad Alameda poi a San Francisco, dove passa all'ufficio del difensore civico Luoise Renne e combatte lo sfruttamento della prostituzione ponendo fine a una rete di bordelli mascherati da centri massaggi.
Da qui l'ingresso in politica, candidandosi e venendo eletta come procuratore distrettuale, nel 2003. La sua prima carica, che la porterà a diventare prima procuratore generale, poi senatrice, vicepresidente degli Stati Uniti e sfidante di Donald Trump alle prossime presidenziali. In tutto l’arco della sua carriera politica le battaglie di Kamala Harris rimangono le stesse: la salvaguardia dell’ambiente, i diritti Lgbt, la legalizzazione e la regolamentazione della marijuana, la situazione delle carceri e dei carcerati, i diritti dei consumatori e delle donne. A questo proposito, è suo il merito della prima sentenza americana relativa al revenge p*rn, contro il creatore di un sito dove venivano pubblicate le foto e i dati personali di alcune ex fidanzate, alle quali veniva poi chiesto un corrispettivo in denaro per la cancellazione. Kamala spiega anche che il termine revenge non è adeguato, perché quelle ragazze non avevano fatto nulla per meritare una vendetta. Il resto non è il caso di raccontarlo perché vale la pena di leggerlo direttamente. il curriculum di Kamala Harris lo potete trovare ovunque, ma il racconto in prima persona aggiunge molto a quella che potrebbe essere una semplice e noiosa trafila di conquiste politiche. Una trafila che comunque sconfessa uno dei più gravosi sospetti che si possono avere nei riguardi di un’autobiografia: la glorificazione. In effetti, il racconto della carriera della Harris ripercorre una serie di atti dimostrati e dimostrabili, non sono promesse né proclami. Parlano i fatti, contro la spettacolarizzazione delle sparate, vere e metaforiche, del suo prossimo rivale, e può essere questo il motivo per cui Kamala Harris è avanti (o comunque in corsa) nei sondaggi e che potrebbe portarla a essere la prima presidente donna nella storia degli Usa. Trump ed elettori permettendo...