Sono passati sessant’anni da che esiste un’idea precisa di cosa sia un hippie (hippy per gli amici). Esisteva già prima, sotto forma di bozzetto, ma nell’estate del 1964 il tutto ha preso decisamente forma. In principio era Jack Kerouac. Lui, il suo flusso di coscienza, sempre che esista una singola parola appoggiata sulla pagina, quella fisica come quella virtuale di un foglio a sua volta virtuale di word, dentro un pc, che non sia in realtà frutto di una mediazione con la realtà, parola studiata per creare una realtà posticcia, nei fatti un falso. Jack Kerouac e il suo flusso di coscienza che da circa sessantasette anni è diventato il modo più canonico per raccontare un viaggio in auto, Jack Kerouac e il suo rotolo di carta da telescrivente sul quale ha scritto il testo del suo On the Road, manifesto dell’essere beatnik, e quindi dell’essere hippie, più dell’adesivo del tipo coi capelli lunghi, la salopette, la chitarra a tracolla e il cane di fianco, manifesto dello spostarsi su ruote che è in realtà un cercare se stessi altrove, un altrove qualsiasi. Strano destino, quello di Kerouac, che per altro è morto proprio nell’anno in cui io sono nato, nel caso a qualcuno servisse un qualche nesso astrale, che ha impiegato dieci anni per veder pubblicato il suo romanzo più famoso, uno dei più famosi e intergenerazionali di sempre, manifesto indiscusso, al pari de L’urlo di Allen Ginsberg e di Il pasto nudo di William Burroughs, della Beat Generation, i primi viaggi raccontati risalgono al 1947, e comunque il libro è stato finito nel 1951, salvo poi diventare canone, lui che sulle improvvisazioni Be Bop di Charlie Parker ha basato la sua poetica, una improvvisazione che si fa a sua volta canone suona indubbiamente come qualcosa di innaturale, scioccante. Ho letto tutto Kerouac, da giovane, e in buona compagnia, immagino, di tanta altra gente. L’ho letto, l’ho amato, e non ci ho mai più messo su gli occhi, da adulto, come mi è capitato con altri autori divorati in gioventù. Non perché ricordassi le trame, le trame in Kerouac sono del tutto irrilevanti, e non sono neanche un lettore particolarmente appassionato alle trame, complice una memoria non esattamente fotografica, quanto piuttosto perché di libri da leggere al mondo ce ne sono davvero tanti, e tendo ad associare quei libri letti in giovane età come a quella genia di esperienze che una volta fatte sono irripetibili, come un po’ tutte le prime volte, che dalla seconda volta non sono più prime volte ma altro. Dopo Jack Kerouac, però, sono arrivati gli hippie veri, e quelli che gli hippie li hanno raccontati, sporcandocisi le mani assieme. È infatti lecito pensare che, in qualche modo, il modo di scrivere alla Kerouac, seguendo un flusso di coscienza, posticcio e dichiarato come tale, sia poi finito dentro i libri gonzo di gente come Hunter S. Thompson, ovviamente penso a Paura e delirio a Las Vegas, che in effetti in auto si svolgeva, Raoul Duke, alter ego dell’autore, e Dr Gonzo, il suo avvocato samoano, lì a strafarsi di droghe, o L’acid-test al rinfresko elettriko di Tom Wolfe, reportage fatto dall’inventore del new journalism, lì col suo completo bianco e il suo cappello a larghe falde, del peregrinare nel nord della California di Ken Kesey e i Merry Pranksters a bordo del Furthur, ex scuolabus pitturato a tinte fluo portato in giro per sperimentare gli effetti dell’lsd sintetizzato di recente a Berkley, gli Warlocks, band rock presto destinata a trasformarsi in Grateful Dead, Jerry Garcia a illuminare il tutto con la sua sei corda e le sue quattro dita, a animare il tutto con le loro cavalcate elettriche.
Il fatto che alla guida del Furthur, pensatelo questo scuolabus completamente dipinto coi colori dell’arcobaleno, a bordo una serie di bizzarri figuri sotto acido, Timothy Leary, lo scienziato pazzo del caso, con Hoffmann, la musica rock a saturare l’aria, pensatelo e sorridete nel farlo; il fatto che alla guida del Furthur, il viaggio è roba del 1964, esattamente sessant’anni fa oggi, il libro è del 1968, il fatto che alla guida del Furthur ci fosse Neal Cassady, cioè il Dean Moriarty che affiancherà Kerouac nel viaggio di On the road, caspita, regala al tutto quel tocco di surrealtà e magia che solo certe figure ormai mitologiche sono in grado di infondere. Ma se Ken Kesey e Neal Cassady, diciamolo apertamente, potrebbero passare anche oggi per vecchi fricchettoni, Kerouac, Thompson o Wolfe lì a raccontarli, c’è un autore che invece quei racconti li ha a sua volta fatti, vivendoli in prima persona, parlo del Richard Brautigan di La pesca alla trota in America, di Zucchero di cocomero, dei 102 racconti zen. Proprio nel medesimo anno in cui il Furthur attraversava la costa occidentale degli USA, Neal alla guida, Ken alla guida spirituale, i Warlocks a accompagnare l’uso di drog*e con le loro jam, i Merry Pranksters a drog*rsi, scopa*e e fare tutto quel che ci si può aspettare da una accolita di fricchettoni dediti a sperimentare l’lsd, usciva proprio il libro d’esordio di Brautigan, il titolo quantomai attinente a questa idea di hippieness, chiamiamola così, che poi in qualche modo includerà Kesey, Garcia e buona parte dei nomi che vi è capitato di leggere da queste parti, Il generale immaginario a Big Sur, essendo Big Sur luogo reale e metaforico di quello spirito, mica per niente ci visse a lungo Henry Miller, che a sua volta lo infilerà nel libro Big Sur e le arance di Hieronymus Bosch e in seguito la combriccola degli scrittori beatnik, Jack Kerouac in testa, a sua volta titolare del libro Big Sur, appunto. Tanta letteratura, quindi, che in qualche modo ha generato un modo di vivere alternativo alla società che ancora credeva nel capitalismo, la guerra era finita con una vittoria, in Occidente, l’ottimismo era parte del pacchetto, specie dopo quel che aveva pensato la Lost Generation, a loro precedente. Uno spirito hippie fatto di musica, drog*, comunione di beni, spiritualità spiccia che attingeva all’alveo dell’oriente, un’idea di ses*o piuttosto libera e aperta. Il tutto troverà il suo culmine nell’Estate dell’amore, cuore di quell’epoca una via di San Francisco, la città dei beatnik appunto, la villa di Aight-Ashbury dove i Grateful Dead convivevano come base, e di lì nei grandi raduni rock, da Monterey a Woodstock, quei medesimi colori fluo, i simboli della pace, la morte conosciuta a Monterey, il capitale che allungherà le mani su Woodstock a porre la parola fine a quello che sembrava un sogno a occhi aperti, magari non proprio lucidi ma comunque aperti. Il tutto cominciato raccontando di un viaggio reale, in auto, prima, a bordo di uno scuolabus dipinto coi colori psichedelici, il medesimo autista, Neal Cassady, ma quella apparentemente è stata una casualità.