Ospite di Gianluca Gazzoli al Basement, Paolo Crepet ha portato la maggior parte dei suoi cavalli di battaglia. I social, i giovani, gli insegnanti, i genitori iperprotettivi e i ragazzi viziati. Il successo, l’educazione, l’attenzione per il disagio mentale che forse è “un po’ too much” e la politica. Ma anche i suoi maestri di vita: Julio Velasco, Oliviero Toscani, Maurizio Costanzo, e c’è spazio anche per Alda Merini, Taylor Swift, Valentino Rossi, Luigi Einaudi, i filtri di Instagram e gli stipendi dei professori. Lo si può amare e odiare, ma vale sempre la pena di ascoltarlo, a prescindere che si considerino i suoi discorsi come boomerate colossali o riflessioni profonde. Parlando con Crepet, è d’obbligo partire dal concetto di salute mentale. Secondo lui, la nuova generazione trae davvero beneficio dalla maggiore consapevolezza in termini di benessere pschico? “Certo, a volte anche un po’ troppo, perché il disagio psichico non è trasmissibile come una malattia infettiva, ma è comunicabile. Se vivi in una famiglia con tua madre depressa, un po’ di quella depressione la respiri. La senti nella mancanza di voglia di fare un weekend fuori, nella mancanza di voglia di mangiare un cannolo con la crema. Poi questa non è una condanna: c’è anche chi riesce a fare i conti con quella storia e magari a comprendere la tristezza malinconica di una donna. Oggi però ho la sensazione che ci sia un sovradimensionamento: tutti sono diventati disagiati. Tutti i ragazzi al liceo dicono che non ce la fanno più. Le scuole sono piene di psicologi. Mi pare un po’ too much. Questo non vuol dire che qualcuno stia barando, ma forse certe cose potremmo anche affrontarle da soli. Io credo molto nella possibilità di entrare e uscire da un proprio errore. Che cosa vuol dire? Sei caduto? Ok, capita a tutti, ma la cosa importante è sapere che puoi rialzarti con le tue forze”. Questo si collega con un altro tema caldo per Crepet: i ragazzi viziati e la mancanza di figure di riferimento. “In Francia si dice che troppa biada ammala i cavalli. Il troppo fa sempre male: dai krapfen ai chilometri che fai di notte: ogni tanto ti devi fermare, andare all’Autogrill, riposarti. Oggi stiamo dando ai ragazzi una quantità di cose spaventosa. Se hai tutto, cosa devi cercare? Non cerchi più nulla. Ma la vita non è così. Ora crescono molli. I ragazzi viziati sono figli di genitori che non sono più autorevoli. Non cresci forte così. Nessun contadino è così idiota da piantare un albero da frutto sotto una quercia: l’albero non farebbe mai frutto. Invece noi mettiamo i figli sotto di noi, che siamo la grande quercia. "Poverino, aspetta, gli do una mano. Vuoi due soldini per andare a ballare a Formentera? Ormai gli adulti non sono più modelli. Io ricordo Fabrica, da Oliviero Toscani, dove venivano ragazzi da tutto il mondo. Lui era severissimo: se sbagliavi, ti diceva che avevi fatto una cazzata. Non te la passava liscia. Però poi ridevi con lui la sera. A me ha salvato tanto avere maestri autorevoli, non autoritari, che è un termine che detesto”. Che esempi si potrebbero fare di maestri, oggi? “Armani è stato un maestro, ma appartiene a un’altra generazione. Valentino Rossi è un altro grande esempio: a 20 anni era già un maestro nel suo campo, ma poi ha creato una sua Academy, ha fatto crescere ragazzi, ha condiviso la sua esperienza”. E Crepet, Oliviero Toscani a parte, che maestri ha avuto? Uno è stato Maurizio Costanzo, che non solo lo ha introdotto al mondo televisivo come ospite del suo show al Tratto Parioli, ma gli ha anche dato una dritta fondamentale: “Diversifica, mi ha detto. Non parlare soltanto di psicologia”. Poi Julio Velasco, ct della nazionale di pallavolo: “ Con lui ci siamo divertiti tantissimo. Era la prima volta che andava a un mondiale, in Giappone. A Fiumicino fece aprire le valigie dei ragazzi e ci trovò di tutto: dal grana agli spaghetti, in una trovò anche la moka. Lui disse: tutta quella roba lì non la voglio neanche vedere. Loro dicevano: me le ha messe la mamma. Non me ne frega niente, rispondeva: se vai a giocare al mondiale, allora devi partire che sei già campione del mondo, e se hai già nella testa che sei campione del mondo non hai bisogno del grana o della mamma. Questo è un maestro”.


Il suo modo di vedere il mondo e i giovani oggi, da dove arriva? Studio o esperienza? “Lo studio è la parte minima. Conta ascoltare le persone. Poi ci sono i matti, come si chiamavano una volta. A me non fanno paura, sono i normali che mi terrorizzano. I matti dicono cose strepitose. Io ho conosciuto Alda Merini. Aveva una casa sui Navigli che puzzava di urina di gatto, una cosa tremenda. Le dissi: Ma come fai a vivere qui? Lei mi rispose: Fatti gli affari tuoi. Aveva un angolino dove scriveva le poesie. In quel disastro, aveva costruito un rifugio di speranza. Non voleva aprirmi la porta: sapeva che ero psichiatra e temeva che la rinchiudessero di nuovo. Fumava come una ciminiera, ma era meravigliosa”. Il livello politico si è abbassato tanto negli ultimi anni? Non ci sono più quelli che, quando io ero ragazzo, si chiamavano i grandi uomini di Stato. Magari non eri d’accordo con loro, ma riconoscevi loro una statura che altri non avevano. Mi ricordo questa cosa stranissima, di quando ero piccolo: passeggiando in un piccolo borgo, a un certo punto c’era un po’ di gente che si metteva tutta di lato. Mio padre mi dice: Stai qua, stai qua. E vengono avanti tre o quattro persone. Davanti c’era un signore, stranamente con un cappotto, era estate, e con un cappello. Un signore anziano. Cammina verso di noi e mio padre mi dice: Sai chi è quello lì? È il Presidente della Repubblica. Era Luigi Einaudi. E c’erano queste cose che ancora oggi me le ricordo: la gente, non dico che si facesse il segno della croce, però c’era un rispetto, un silenzio, una roba tipo: Dio ti allunghi la vita perché ci hai salvato dalle rovine della guerra. Però, ecco, questa gente qua, che tra l’altro è poca, non la devi cercare sempre nella politica. La politica è fatta da tutti. La politica è tutto. Non è solo chi è eletto e va in Parlamento o al Senato. La politica la fa un bravo insegnante, per esempio. Un bravo insegnante ha una responsabilità enorme, perché tira su una generazione.”. La scuola: un altro tema molto sentito da Crepet. Esistono ancora gli insegnanti autorevoli? “Io penso che ce ne siano. Perché mi scrivono. Mi scrivono addolorati. Addolorati perché non ascoltati. Addolorati perché considerati poco. Perché non guadagnano niente. Tante volte ci sono i ragazzini che dicono alla prof: Stai zitta te, che prendi mille euro. Ma questa frase l’ha sentita a casa. Non è che te la inventi a dieci anni, una battuta così. Questa è una cosa veramente orrenda: che un genitore dica una roba tipo: Ma va là, quella lì prende mille euro, mentre quell’altro che non paga le tasse c’ha la Lamborghini”.
Il rapporto dei giovani con i social? “Sembra che ci sia una crescente consapevolezza. Non dico che ci si stia stufando, ma qualcosa sta cambiando. Le persone iniziano a rendersi conto degli effetti collaterali che questa cosa sta generando, soprattutto tra i giovani. Uno dei social più problematici, secondo me, è Instagram. Ti insegna la perfezione, e questo è un delitto. Perché un ragazzo, una ragazza, devono essere perfetti. Perché l’unica cosa che gira è la tua faccia. Ma noi non siamo solo la faccia. Dietro c’è anche il cervello, che ha una certa importanza. E poi c’è il disagio: perché non sei tu. Puoi usare tutti i filtri che vuoi, diventare la più bella del mondo. Ma poi vai a prendere un caffè, e non sei più quella persona. È un inganno. Continui a essere in competizione. Estetica, sociale, economica. I social sono interessanti, ma valgono poco. Chi li usa tanto non lo capisce. Prendi Taylor Swift: con le elezioni di Trump si è presa una bella batosta. Chi l’avrebbe detto? Era la numero uno, poi arriva Trump e fa: Te l’avevo detto io. È bastato poco. Perché? Perché sono cose basate sul nulla. Senza offesa per nessuno, ma io conosco gente che fa musica, anche una pop star molto famosa (non italiana), con cui sono molto amico. Ha 50 milioni di followers. Ma lavora. Lavora tanto. E si vede. I Beatles non venivano dal cortile. Dietro c’erano orchestre incredibili, manager geniali. L’importante è questo: qualsiasi cosa tu scelga di fare, devi saperla fare. Devi studiarla. In America, ad esempio, se hai una bella voce e sei carino ti dicono: ok, adesso impara i fondamentali. Lavora. Vittorio Gassman era bellissimo, un dio. Parlava per ore a 10 cm da un muro per rinforzare la voce. E oggi? Ci arrivi più facilmente a quel palcoscenico lì, ma con la stessa facilità puoi anche scendere”. Perché bisogna avere paura del successo? “Perché il successo è un participio passato. È già successo. Una volta che arrivi, è già finita. Devi cambiarlo, trasformarlo. E oggi, in realtà, diventare popolari è facile. Mantenere il successo nel tempo, invece, è difficilissimo. Toscani, ad esempio, era uno attentissimo. Si incazzava se in un ritratto c’era un dito di aria sopra la testa. Dovevamo fare una puntata insieme, era tutto organizzato. Poi si è aggravato. Ho vissuto l’ultima giornata con lui, il funerale in Toscana. C’erano i suoi figli, hanno suonato Forever Young di Bob Dylan. Era la sua canzone. E lui era incazzato con Dylan perché è stato l’unico che non si è mai fatto fotografare. Il farabutto. Ma era così”. Toscani, il maestro, passava al pubblico per avere un carattere ruvido. Era davvero così? “Ruvido è un eufemismo, se gli stavi sulle palle non facevi una bella fine. Noi ci siamo sempre voluti bene. Una volta ero a dormire da lui, in campagna, e mi dice: Stasera ti porto in una trattoria carina. C’era anche Francesco Merlo, che è un grande giornalista. Era estate, e con la sua mitica Land Rover verde, di quelle vecchie. Andiamo pian pianino giù per una stradina che si chiama la Volterrana, chiacchieravamo di cazz*te e cose così. A un certo punto in questa stradina c'è un gatto nero che prima si mette sul bordo poi attraversa e sta al centro della strada, e io dico :Oliviero che facciamo, non andrei avanti. Lui: ma sei matto, neanche morto. Allora mette la freccia e ci mettiamo lì, pensando che prima o poi andrà via oppure passerà qualcuno e se lo becca lui. Siamo stati lì 40 minuti ad aspettare, a raccontarci le cazz*te più cazz*te che ci erano successe nella vita finché a un certo punto lui con lo specchietto dice: Dai che arriva. Passa un vecchietto con la Panda, il gatto si scosta andiamo a cena. Questione risolta”.

