Il libro non è televisivo. Non regge i tempi, non buca lo schermo. Quando si è provato davvero a mettere la letteratura al centro – vedi Masterpiece, il talent show per scrittori messo in piedi da Rai 3 e Fremantle nel 2013 – è stato un disastro, sospeso dopo una sola stagione. Me ne sono ricordata quando ho letto la sortita di Paolo Di Paolo su Dagospia, secondo cui per rivitalizzare le vendite dei libri in Italia bisognerebbe parlarne in tv (argomento sollevato da noi qui); mi ha ricordato quei discorsi in fila al supermercato, quando si chiacchiera di argomenti complessi e c’è sempre quello che butta lì la soluzione come fosse una cosa semplice, scemi noi a non averci pensato prima. Il problema è che le cose sono leggermente più complesse. Intanto è la tv ad essere in crisi, basta vedere come sono ridotte le presentazioni dei palinsesti, con Mediaset che nel 2025 ha il coraggio di parlare di “rinnovamento” proponendo la Ruota della Fortuna in access prime time. In secondo luogo, bisognerebbe ricordare a Di Paolo l’immortale lezione di Marshall Mc Luhan, “contenuti forti trovano rappresentazioni forti”, che qui potremmo riformulare in questo modo: libri cazzuti trovano sempre il modo di far parlare di loro. Citando a caso, dal passato recente e da quello un po’ meno recente: Sottomissione, L’amica geniale, Gomorra, 100 colpi di spazzola, Va’ dove ti porta il cuore, Il nome della rosa sono solo alcuni esempi di racconti entrati in varie forme e in vari modi nello zeitgeist. Con o senza dibattito in studio, con o senza il Gigi Marzullo di turno a spiegarne al pubblico il valore e l’importanza, ben prima o senza adattamento cinematografico o televisivo.

Il problema, quindi, non è che “i dirigenti tv non leggono i libri”, perché i dirigenti TV i libri possono pure non leggerli, come Paolo Di Paolo può non guardare Temptation Island. I dirigenti tv devono pensare agli ascolti, e la questione è che, in un momento in cui la tv generalista affonda sotto i cannoni delle piattaforme di streaming, tali dirigenti parlerebbero di qualsiasi cosa pur di farli. Ma se il 99% dei libri che esce in Italia racconta peripezie intellettualoidi in forma di auto-fiction scritti in una non-lingua standardizzata priva di guizzi, incapaci di uscire dal seminato dell’onnipresente paradigma della vittima o di mettere in guardia dall’imminente “ritorno del fascismo” diventa difficile pensare di costruirci sopra un qualunque tipo di spettacolo che non sia o un documentario sul Duce, o una serata di neofemminismo pride in qualche localino al Pigneto. Per non parlare delle scrittrici e degli scrittori, il cui ego ipertrofico si accompagna sempre a una pochezza umana imbarazzante. Facile citare Aldo Busi e le sue performance dadaiste ad Amici appartenenti ormai ad un’altra epoca. Prendiamo invece i candidati al Premio Strega degli ultimi tre anni: con quanti di questi sarebbe interessante andare a cena? Non bastano un paio di occhiali con la montatura a farfalla e un vestito confezionato da un fashion designer per creare un personaggio che abbia qualcosa da dire. Contano le esperienze, la vita vissuta: esattamente quello che manca alla maggior parte di scrittori e scrittrici di casa nostra, le cui vite sono interessanti quanto una lettera d’amore scritta da un ex di cui ci si vergogna. Piuttosto che parlare della tv generalista ridotta a cimitero degli elefanti, sarebbe più interessante parlare dei veri protagonisti dell’ecosistema culturale di oggi: i booktoker, i creator, insomma, i divulgatori umanistici digitali - che, per inciso, non vivono “altrove”, come ha scritto Di Paolo, ma nel centro esatto del nostro tempo. Sono loro ad aver trasformato la lettura in una performance visiva, con i libri vilipesi e ridotti ad accessori prêt-à-porter, con copertine abbinate alla manicure, book haul, unboxing e bookshelf tour, alla ricerca di un Proust che si abbini al top preso su Shein che mi fa due bocce tante. La lettura da gesto privato diventa pornografia, atto compiuto con il solo intento di essere mostrato. Altro che altrove, altro che mondo parallelo: se i creator non parlano di te, tu scrittore non esisti. E quindi forza, scrittore, mettiti anche tu sui social, scompigliati i capelli, indossa una giacca di flanella, paga un’agenzia di influencer marketing, trasformati in fenomeno da baraccone, perché il tuo libro conta solo come oggetto, ovvero solo per la sua utilità percepita, e giù con quell’idiozia sesquipedale delle liste dei libri che hanno cambiato la vita – figlie di quella bestemmia culturale che vuole la letteratura essere un mezzo e non un fine. È l’eredità culturale di Fabio Volo (non a caso, molto apprezzato da Di Paolo): il libro come pagnotta, ovvero come strumento, la lettura come mattarello, ovvero come cassetta degli attrezzi, un micro-pensiero figlio di una concezione utilitaristica dell’esistenza per cui o si è in qualche modo produttivi o non si ha diritto di cittadinanza. Un paradigma dentro cui la letteratura sarà sempre sconfitta a prescindere, perché il libro, qualunque libro, non sarà mai in grado di restituire quell’immediatezza e quella misurabilità ricercata in modo spasmodico da questi tempi sclerotizzati, dove tutto deve accadere subito, deve servire subito, altrimenti ‘sti caz*i.

La lettura come atto di ribellione, il tempo buttato a leggere e a pensare come atto di resistenza, alla faccia del conformismo del risultato, della metrica che misura ogni performance. O si parte da una rivoluzione culturale che metta al centro questa concezione della letteratura o se si pensa di inseguire la modernità sul proprio terreno, con gli scrittori ridotti a mental-coach o maestri di vita dei poverissimi, di libri se ne venderanno sempre di meno. Dieci libri che non mi sono serviti assolutamente a nulla ma che ho amato alla follia è l’unica lista che mi sentirei di condividere. Mentre l’unica cosa che vorrei vedere, invece, sono Mario Soldati e Cesare Zavattini che, nel 1960, con Chi legge? hanno attraversato l’Italia da Marsala a Quarto per chiedere alle persone il loro rapporto con i libri, ricevendo risposte logorroiche, spesso insensate, inutili. Niente fascette, niente copertine, niente post.it colorati, niente divulgatori compiaciuti. È proprio da lì che bisognerebbe ripartire.
