Ho fatto il corso gratuito sull’Ai di Marco Montemagno. No, non intendo parlarne, anche perché non avrei praticamente nulla da dire. Se non che l’idea di base secondo cui internet, quando è arrivata, poteva sembrare qualcosa di temporaneo e comunque elitario, ma poi è diventata senza se e senza ma la vera rivoluzione di fine Novecento, altro che i voli su Marte, sorte che probabilmente seguirà anche l’Ai, è assai condivisibile. Internet è ovunque. E non sapremmo affatto farne a meno, oggi come oggi. Neanche per le più semplici operazioni quotidiane, dal pagare una bolletta a capire quanto tempo ci metteremo a raggiungere i nostri amici in quel locale per un aperitivo. Io, personalmente, il mio primo vero approccio a Internet l’ho avuto a fine anni Novanta, immagino con un certo ritardo sui tempi. Intendiamoci, sapevo cosa fosse, avevo anche chiesto di mandare alcune mail ai miei amici che avevano internet a casa, internet che ai tempi passava dentro un rumorosissimo e lentissimo modem, ma non avevo mai provato a navigare. A dirla tutta internet l’avevo sentita nominare la prima volta già negli anni Ottanta, quando i miei amici Paolo e Roberto Bartola, figli di un professore di Ingegneria di Ancona me ne avevano parlato, e poi se ne era parlato, sempre con toni vagamente fantascientifici, all’Università di Bologna, dove frequentavo Storia moderna, col dire che avrei potuto chiedere non so cosa negli Usa usando appunto internet, fatto che era però rimasto campato per aria. Il primo incontro, dicevo, è avvenuto negli anni Novanta, sul finire, quando un giorno ho deciso che avrei preso la scrivania lasciata vuota dal mio collega Giuseppe Genna, collega nel senso di scrittore, che da poco aveva lasciato con tanto di causa la Mondadori. Lui era stato messo a lavorare alla prima idea di sito del gruppo editoriale di Segrate, io lavoravo alla start-up di Strade Blu, oltre che collaborare a Urania e a alcune uscite della Varia. Dico questo non per dilungarmi, ma per entrare nell’argomento del pezzo. Giuseppe se ne va, sbattendo metaforicamente la porta, e lasciando libera una scrivania. Io avevo un contratto da collaboratore, che non prevedeva una scrivania, quindi decido di far mia la sua. Come? Semplice, togliendo le sue cose, mettendo foto mie e di mia moglie, e più semplicemente facendo passare per naturale che quella era diventata in effetti la mia postazione. Per capirsi, questa faccenda andrà avanti per cinque anni, finché un restyling della redazione che mi ospitava, quella della Varia, farà venire fuori il fatto che ero lì abusivamente. Nei fatti, in quel giorno di fine anni Novanta ho preso le mie foto, messo la mia agenda sul tavolo, riordinato quel che c’era da riordinare, e ho acceso il suo computer, un Apple con un gigantesco schermo. Non ricordo il nome, ma era di quelli che sembravano vagamente un grande televisore col tubo catodico, lo schermo grande e il resto di colore azzurro. Accendo il computer e mi accorgo che in realtà il computer non era mai stato spento, era stato spento solo lo schermo. Il perché mi sarebbe divenuto subito chiaro, in video hanno cominciato ad aprirsi tutta una serie di pop-up, io ai tempi non sapevo si chiamassero così, che mostravano quasi sempre donne piuttosto formose, completamente nude, nell’atto di prender su cazzi in ogni luogo e in ogni lago. Un pop-up via l’altro, senza possibilità di fermarli. Il computer, per chiudere l’aneddoto, era coperto alla vista del resto della redazione, la scrivania che da quel momento e per cinque anni sarebbe diventata mia era all’estremità di quella porzione del quarto piano del palazzo Mondadori, ma era rivolta verso il corridoio, col risultato che tutti quelli che passavano, e visto che la Varia si trovava esattamente a metà del corridoio che portava alla due torri con gli ascensori, qui passavano praticamente tutti, mettendomi in un certo imbarazzo. Un bel modo di sbattere la porta, quello di Giuseppe, lasciando un florilegio di pop-up del genere, davvero un bel modo. Facciamo un passo in avanti, nel futuro.
È il 2003, credo. Ho ancora la mia scrivania alla Mondadori di Segrate, ma nel mentre me ne hanno affidato una anche alla Mondadori di corso Europa, in centro, dove si trova la redazione di Tutto Musica. Il caporedattore Luca Valtorta, che mi aveva portato in quel magazine aprendomi la carriera da critico musicale, e che presto se ne sarebbe andato a Repubblica, per lavorare prima a Musica, poi a Xl, oggi a Robinson, mi affida un pezzo sulle SuicideGirls. Io devo intervistarne due e scrivere il pezzo, il mio sodale dell’epoca Luca Del Pia deve fotografarle. Erano altri tempi, quando si faceva un servizio, ed essendo un mensile in genere di servizi ne firmavo uno, massimo due al mese, si facevano anche servizi fotografici ad hoc. Le SuicideGirls, siamo nel 2003, ricordiamolo, sono un fenomeno della controcultura del momento. Il nome è quello di un sito a pagamento, cioè dentro il quale si può accedere solo se si è pagato un abbonamento che ci concede le chiavi di ingresso, che presenta foto softcore e scritti di giovani donne ricoperte di tatuaggi e piercing, costantemente in pose erotiche, neanche troppo soft. Pura epopea grunge, per intendersi, ragazze che potresti trovare in un centro sociale o a un rave, i capelli colorati, le canotte slabbrate, i peli sottobraccio e sul pube, spesso, l’aria di chi magari non si è lavata troppo di recente, metteteci quel che volete di un immaginario punk, sì, ma erotico, quasi porno. Essendo gli anni dell’arrivo del web, da poco si parla con una certa frequenza di file sharing, dopo che Napster ha illuminato la discografia con le sue luci apocalittiche, ma essendo ancora anni anarchici, senza troppe regole, anche l’idea di un mercato della carne, Dio mio sembro Capezzone, che sposti l’immaginario dentro il Leonkavallo invece che in un boudoir va più che bene. Potrei ora far finta di ricordarmi tutto quel che ci siamo detti, una delle due ragazze era la prima SuicideGIrls italiana, di lì a breve diverrà anche piuttosto popolare per aver preso parte a un film porno vero e proprio, oltre che per due dischi di musica elettronica alla Mi Ami, prima che il Mi Ami esistesse, per altro, ma nei fatti ricordo davvero poco. Se non una certa leggerezza di fondo durante il set fotografico, cui ovviamente non ho assistito, togliendomi di torno dopo aver fatto le mie domande. E ricordo anche che il succo del discorso, discorso che parlava ovviamente di emancipazione femminile, di affermazione personale, magari non proprio di anti patriarcato, perché la parola patriarcato credo che ai tempi non usasse, ma quella roba lì, un porno fatto dalle donne, invece che dagli uomini, seppur gli uomini fossero poi i destinatari, ricordo che il succo del discorso lo avrebbe a un certo punto cristallizzato proprio la prima SuicideGirls, nome d’arte Aiki, dicendo che lei faceva scatti erotici col compagno, perché si divertiva, sancendo la differenza tra lei e una qualsiasi playmate di Penthouse, se non addirittura una qualsiasi star del cinema per adulti che non fosse arrivata all’industria dell’hard coattamente solo per la presenza di piercing, tatuaggi e capelli colorati, niente di più. L’altra ragazza, pin-up punk de noantri, all’ultimo ci chiese pure di pixellarle il viso, per non essere riconosciuta dai parenti e anche dai genitori dei figli cui faceva scuola, era tipo una maestra, alla faccia dell’autodeterminazione femminile. Di SuicideGirls si è continuato a parlare per un po’, poi, come spesso capita alle mode che finiscono, si è semplicemente smesso di parlarne, pur rimanendo il sito ancora attivo e a pagamento, su Ig ha nove milioni e mezzo di followers, manco pochi. Per altro, provando a vedere se avessero un account, forse proprio per il nome, ho cominciato a ricevere messaggi da Instagram, preoccupato per la mia salute mentale, non perché pensasse che io fossi un amante dell’hard, addizionato a foto o reel di ragazze nude, quanto piuttosto che volessi farla finita. Andiamo ancora avanti, oggi.
SuicideGirls è lì, che lotta insieme a noi. Immagino ci sia qualche appassionato del genere ragazza colorata e piercingata che abbia dollari da spendere per vedersele amoreggiare, tra loro o con se stesse. Ma nel mentre è arrivato prima Twitter, che è un social che quanto a censura fa un po’ acqua da tutte le parti, raccontavo tempo fa di come io non possa visitare il social di Elon Musk col cellulare, mentre ho i miei figli intorno, perché ho un mio vecchio lettore, che mi ha chiesto l’amicizia che condivide continuamente miei articoli, roba inerente la Juventus e video di ragazze, quasi sempre grassocce e neanche troppo giovani, che prendono caz*i praticamente ovunque, quindi prima è arrivato Twitter, poi i siti hard, dove la faccenda dell’abbonamento si è ripetuta praticamente alla medesima maniera, non fosse che su SuicideGirls pagavi per entrare nella community, oggi il rapporto è uno a uno con l’artista, chiamiamola così. Se un tempo, parlo di venti e oltre passa anni fa, la differenza era nell’attitudine punk, nel look alternativo, nel non aderire pedissequamente ai canoni vigenti di bellezza mainstream e neanche a quelli dell’hard, stavolta credo che di differenze non ce ne siano proprio, perché nel mentre il mercato si è allargato a dismisura e una papabile SuicideGirls può serenamente stare su sui siti per adulti. Certo, manca quell’aura di rock’n’roll che c’era allora, non solo intorno e dentro questa community, ma più in generale in rete, quando internet era ancora vista come qualcosa alternativa al mercato globale, anzi, era un vero e proprio territorio di esplorazione dei No Global, una specie di luogo di resistenza contro il Capitale, mentre ora è tutto parte del Capitale stesso, paga in soldoni, in view, come dati, basta che paghi. Mica per niente la tizia di cui scrivevo prima, che nel tempo è passata dalle tastiere e i palchi dei centri sociali a candidarsi per CasaPound e scrivere per giornali di estrema destra articoli che vertono quasi sempre sul concetto “la cultura woke è una mer*a”, “le donne sono tutte un po’ t*oie”, sì, giuro, “le sinistre sono ipocrite”, che vai poi a capire dove le si vedano tutte queste sinistre, lei che saliva sul palco col naso e la bocca sanguinante, che faceva rapporto orali nei video, che pensava che far contento il proprio fidanzato fosse una buona ragione per fare foto a pagamento mentre si infilava due dita nella vagina, ecco, mica per caso la tizia di cui scrivevo prima nel mentre si è redenta e ora guarda a quel passato sporco e porcellone come a una “caz*ata” di gioventù, il solo modo per espiare le colpe parlare di trans donne usando il maschile e agognare un mondo dove le diversità non siano contemplate. Ai tempi, sarà che ero il titolato a giocarsi la carta del moralista in una redazione di giovani alternativi piovuti per sbaglio nel mensile di Tv Sorrisi e Canzoni, avevo in qualche modo deriso le due ragazze, ironizzando sul volto pixellato dell’una quanto sulla leggerezza vacua dell’altra, oggi, temo, mi viene quasi da rimpiangere un mondo con un po’ meno di QrCode e codici a barre, con corpi più imperfetti che si contrapponevano a quelli da Barbie siliconate. Lo so, sembro un Nanni Moretti che in Palombella rossa rimpiange i pomeriggi di quando da bambino mangiava pane e cioccolata, solo che qui si parla di tette e fighe. Anche solo a scriverlo, in effetti, mi lascia pensare che non abbiamo poi fatto una gran fine, ma che pure allora non è che stessimo proprio benissimo.