Tempo fa ho scritto un pezzo che tirava in ballo una strofa di Calcutta, quello in cui diceva di aver fatto una svastica su un muro a Bologna solo per litigare (chissà se poi quando è finito a letto per la prima volta con una di destra, come canta in Controtempo parla di quel che è successo dopo quella svastica… scusate, sto divagando). Il pezzo in realtà non parlava di me che avevo fatto una svastica su un muro da qualche parte, non ho mai fatto svastiche, ma di me che ero andato a un concerto di Levante solo per litigare. Era successo che in passato avevo duramente criticato la cantautrice di Alfonso, e l’avevo criticata perché dicevo che mi sembrava stesse usando più energie su Instagram che nel fare canzoni, per altro con ottimi risultati, su Instagram. Lei si era offesa e mi aveva blastato alla festa di Wired, in mia assenza. Così quel giorno ho deciso di andare a un suo concerto al Teatro dal Verme, solo per litigare. Pensavo mi avrebbe fatto caga*e e l’avrei quindi stroncata senza pietà. In realtà non sono uso andare a concerti di artisti che mi fanno caga*e, ma quel giorno Matteo Salvini e la Lega avevano stravinto le elezioni, erano quelle nelle quali avevano superato il 30%, altri tempi, e volevo litigare con qualcuno, Levante nel caso specifico, solo per sfogare una certa frustrazione. Il concerto in realtà mi è molto piaciuto, e quindi non ho potuto litigare con nessuno, ma almeno ho capito che la bellezza e l’arte, a volte, servono per curarci. Oggi sono stato al mare alla spiaggia San Michele di Sirolo. Spiaggia San Michele si fa per dire, perché sceso giù per il lunghissimo sentiero che parte dal parco cittadino di Sirolo, ho scoperto che a un certo punto era interrotto, poi ho anche scoperto perché. Le mareggiate, infatti, non solo si erano mangiate del tutto parte del sentiero, le scalinate che portavano giù in spiaggia, ma anche quasi tutta la spiaggia, col triste risultato che, fatta eccezione per la lunga fila di ombrelloni dello stabilimento Silvio, di spiaggia San Michele rimane ben poco. Giusto qualche metro quadro nel quale io, mia moglie e i nostri quattro figli ci siamo accomodati con il nostro equipaggiamento composto da tende di Decathlon, ombrellone e sedie da mare, oltre che teli, circondati da altri nostri simili. Non bastasse quindi il disagio, c’è anche che, dopo un’ora scarsa che eravamo lì è arrivata la mucillagine, vanificando il nostro essere in quella che fino all’anno scorso era una delle location più belle del Monte Conero. Niente spiaggia e mare di merda, un mix mortale. Anche perché, qui il dramma, non essendoci più spiaggia, non c’è neanche ombra, così mi sono trovato costretto a fare il bagno praticamente ininterrottamente fino a ora di pranzo, in mezzo a quella melma, impensabile tornare su rifacendo il sentiero in salita sotto il solo, circa mezz’ora di camminata. Risultato, quando finalmente sono tornato a casa, a metà pomeriggio, io, come il resto della mia famiglia, ero ricoperto di mucillagine, tutto bianco e rigido, come di cartone, i peli intrecciati come fossimo in presenza di non voglio dire cosa. Quello che state leggendo, che suppongo potrebbe indurvi a pensare che qualcuno abbia sbagliato a mettere il testo sotto il titolo, non fosse che la firma è mia, è in realtà molto coerente con quel che sto per dire, anzi, che sto già dicendo da oltre cinquecentosettanta parole.
Perché, con una stanchezza atavica addosso e un nervosismo che in confronto quella sera da Levante ero calmo, sono andato, con mia moglie, responsabile del mio essere andato a Sirolo alla spiaggia San Michele, io lo dicevo che era da pazzi fare tutta quella strada a piedi col rischio mucillagine, a vedere Francesco De Gregori in concerto a Porto Recanati, all’Arena Beniamino Gigli. E ci sono andato per litigare. Io e De Gregori abbiamo uno storico lungo come la scia di mucillagine di cui sopra, sono anni che lo critico ferocemente, le ultime volte per il disco con Checco Zalone o per l’aver ceduto la canzone La storia a Enel, quindi potete ben immaginare come io sia bello carico. Probabilmente, da qualche parte dove non è arrivato il mio sguardo e le mie mani, c’è ancora un residuo di mucillagine addosso a me, nonostante quasi un’ora di doccia, non potrà che venirne fuori qualcosa di ottimo, penso. Invece comincia Angela Baraldi. E comincia con A piedi nudi. Dovete sapere, e sto ancora coerentemente dentro questo pezzo, che io amo Angela Baraldi. E la amo da un po’ prima che lei portasse quella canzone con tutta la sua grinta e spavalderia sul palco dell’Ariston durante il Festival di Sanremo, anno del Signore 1993. La amo dal giorno in cui ho comprato il suo album d’esordio, Viva, anno del Signore 1990, spinto dall’aver letto la notizia che lo aveva prodotto Lucio Dalla, non uno di passaggio, e dall’aver ascoltato Io & Sem. Un lavoro bellissimo, come tutto ciò che Angela ha scritto e cantato fin qui. Io e Angela non ci siamo mai incontrati, e, spoiler, non ci incontreremo neanche stavolta, ma averla ascoltata aprire questo concerto con quattro brani mi ha spuntato la scimitarra con quale pensavo di fare a fettine De Gregori, confesso. O meglio, mi ha posto di buon umore, nonostante tutto. Poi, però, è arrivato lui, De Gregori, e io sono rimasto addirittura scioccato, perché ho assistito a qualcosa di assolutamente inaspettato. Lo ha dichiarato subito, e ora capirete perché ho parlato di coerenza nel mio raccontarvi aneddoti apparentemente fuori luogo o fuori tema, De Gregori stasera ha deciso di parlare molto, moltissimo. Lo sta facendo da che questo tour è partito, un mese fa, e lo sta facendo, ha detto, perché ha visto che così fa Venditti, con cui ha condiviso un fortunato tour. Quindi stasera De Gregori si è concesso molto parlando, raccontando, scherzando, dissertando, esattamente come ho fatto io sin qui, praticando una sorta di mimesi. Ma le sorprese non si fermano qui. De Gregori infatti, per la prima volta in vita sua, ha riempito la scaletta di brani spesso fuori dai suoi concerti, un tempo si sarebbe detto “brani minori”, roba come Cose, Compagni di Viaggio, Falso Movimento, L’uccisione di Babbo Natale, Numeri da scaricare. Brani posti in apertura di concerto, in ottima compagnia di brani più consueti, seppur altrettanto antichi, quali Atlantide, Stella Stellina, I Matti, e che mi hanno sul momento confermato che quanto De Gregori ha fatto in passato è meglio di quanto ha fatto più recentemente. Solo che, sorpresa delle sorprese delle sorprese, De Gregori ha fatto un vero miracolo, per la prima volta da sempre, credo, non ha cambiato le melodie delle sue canzoni. In passato, infatti, le ha sempre martoriate, distrutte, stuprate, al punto da renderle irriconoscibili, o più semplicemente più brutte di quando le aveva scritte e incise. Una volontà di andare contro il proprio pubblico, sembrava, o forse di far capire che è bene non mitizzare i propri idoli, tema al centro del brano Guarda che non sono io, uno dei pochi che contravviene alla regola del bello che viene solo dal passato remoto. Stavolta De Gregori canta tutto nel modo giusto, fancu*o Bob Dylan, e prima di cantare racconta. Si dimostra non solo generoso, ma simpatico, altra sorpresa mica da ridere, e poi inanella una dietro l’altra una serie di perle da togliere il fiato, perché le perle nel repertorio lui le ha, può farlo. Quindi ecco Generale, Il cuoco di Salò, La Leva calcistica del ‘68, Diamante di Zucchero, di cui ha scritto il testo, La valigia dell’attore, Sempre e per sempre, La donna Cannone, per poi riprendere nei bis La storia, senza Enel in vista, una strepitosa Anidride Solforosa di Lucio Dalla fatta da una ancora travolgente Angela Baraldi, che a questo punto amo ancora di più e il gran finale prima con Rimmel e poi con Buonanotte fiorellino, con tanto di invito a chi volesse tra il pubblico a farsi sotto il palco per ballare il valzer, richiesta che io e mia moglie abbiamo ben accolto con altra gente, pensatemi lì a ballare goffamente davanti a tutti.
Nel presentare la banda, così l’ha chiamata, composta oltre che dal solito capobanda Guido Guglielminetti al basso, da Carlo Gaudiello al pianoforte, da Alessandro Valle alla pedal steel, Primiano Di Biase all’Hammond, Paolo Giovenchi alle chitarre, Simone Talone alla batteria e percussioni, Francesca La Colla ai cori, De Gregori ha specificato come stasera si sia assistito a un concerto tutto suonato, senza trucchi, senza sequenze, senza finzioni, facendo sue istanze che solitamente porta avanti Enrico Ruggeri (buffo, perché Ruggeri ha risposto alla degregoriana Guarda che non sono io con la sua Sono io quello per strada, ma sul suonare davvero sono perfettamente allineati). Ha anche suggerito che, se ci fosse un critico, avrebbe dovuto o potuto intitolare il suo pezzo “Musica italiana dal vivo”, frase che per altro tutta la banda, De Gregori in testa, ha ripetuto a fine concerto. Eccoci qui, Musica italiana dal vivo è il titolo di questo pezzo, il riferimento a Tony Effe è per specificare che c’è chi invece porta in giro altro, purtroppo. Con Angela ci siamo scritti, ma quando lei ha risposto al mio messaggio ero già in auto, diretto verso Ancona. Alla radio stava passando Musica Italiana di Rocco Hunt, e la cosa mi ha riempito di malinconia. Per Rocco Hunt, che non sarà mai un De Gregori, per chi ascolta Rocco Hunt e non De Gregori, perché non sa cosa si perde, e più in generale per tutti noi, perché un concerto come questo, sia l’apertura di Angela Baraldi che il grande show di De Gregori, andrebbe passato nelle scuole come esempio di come si possa fare arte e intrattenimento allo stesso tempo, e di come le canzoni possano veicolare poesia, contenuti e messaggi, altro che Sesso e samba. È finita, quindi, che invece che litigare ho ballato un valzer con mia moglie sotto lo sguardo di De Gregori, che fortunatamente non mi ha visto o non mi ha riconosciuto o ha preferito far finta di niente, perché stasera era in vena di regalarsi al suo pubblico, anche a me.